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L’ultima informativa del Ros su Pittelli: «Se mi accade qualcosa trovi la Bibbia nei pantaloni»

Una nota di 225 pagine firmata dal maggiore Vincelli depositata nel maxiprocesso Rinascita Scott: ulteriori intercettazioni ed il narrato inedito dei collaboratori di giustizia su presunti tentativi di corruzione e legami con i clan

L’ultima informativa del Ros su Pittelli: «Se mi accade qualcosa trovi la Bibbia nei pantaloni»
Giancarlo Pittelli

Un’informativa di 225 pagine: la raccolta organica delle dichiarazioni rese da vecchi e nuovi collaboratori di giustizia, alcuni dei quali non esaminati nel corso del maxiprocesso Rinascita Scott; nuove intercettazioni; ulteriori emergenze investigative acquisite o esaminate successivamente alla misura cautelare eseguita il 19 dicembre 2019. Redatta dal Secondo reparto del Ros Centrale, la nota è sottoscritta dal maggiore Fabio Vincelli il 7 gennaio scorso. Depositata a disposizione delle difese dal pool di Nicola Gratteri, corrobora l’impianto accusatorio a carico di Giancarlo Pittelli, uno degli imputati chiave del maxi-procedimento in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme. [Continua in basso]

La Bibbia nei pantaloni

«Domenico, se mi dovesse succedere qualcosa in un paio di pantaloni trovi la Bibbia». Una frase sibillina che Giancarlo Pittelli, il 29 gennaio del 2019, pronunciò rivolgendosi a Domenico Salvatore Galati, suo ex collaboratore parlamentare. Per il Ros si tratterebbe di un «documento evidentemente compromettente anche per altri nel quale ha ricostruito tutta la propria vicenda». Quale? È forse uno degli appunti sequestrati dagli uomini del maggiore Vincelli nel corso della prima perquisizione nello studio dell’ex parlamentare? «Tale affermazione – è scritto nell’informativa – lascia spazio a plurime interpretazioni, tutte attagliate alle attività e alle risultanze rappresentate da questa Sezione». E ancora: «Tale affermazione può essere letta quale timore per la propria incolumità fisica in conseguenza dei problemi economici, ovvero del debito contratto con Mancuso Luigi, la stessa potenzialmente può collocarsi quale principio di quel processo di profondo sconforto che avrebbe portato Pittelli a prendere in considerazione la commissione di un gesto avventato in danno della sua vita, come riscontrato nel rinvenimento del testamento-lettera di addio datata maggio 2019». Un “testamento” che, rientra, appunto, nel materiale sequestrato dal Ros proprio nel giorno dell’arrestato del noto penalista catanzarese.

Il narrato di Femia

L’informativa del Ros riepiloga le dichiarazioni dei pentiti, storici e recenti: Michele Iannello, Luigi Guglielmo Farris, Gerardo D’Urzo, Francesco Oliverio, Cosimo Virgiglio, Emanuele Mancuso, ma anche Nicola Femia, il cui nome era scritto su quel foglio di carta intestata dello studio Pittelli anche questo sequestrato dal Ros. Un pentito, Femia, non esaminato nelle indagini preliminari di Rinascita Scott. Dice l’ex “riservato” dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica in un interrogatorio reso il 29 ottobre 2020, riprendendo i contenuti di un altro interrogatorio risalente al 20 luglio 2017: «Mi convoca a Roma nel suo ufficio in via della Lupa numero 1 e in quell’occasione mi invita portargli 50.000 euro a titolo di acconto in quanto mi riferiva di aver trovato il modo per poter aggiustare con l’appello, la sentenza di primo grado». Il pentito reggino spiega anche come «Antonio Mancuso, avendo saputo che Pittelli era mio difensore, si propose di intercedere lui stesso con l’avvocato Pittelli per favorire la mia scarcerazione. Mi diceva che avrebbe provveduto lui stesso a mandare un’imbasciata al Pittelli in quanto questi era stato “portato avanti” politicamente direttamente da lui, nel senso che Mancuso aveva favorito la raccolta di voti in favore del Pittelli candidato al Parlamento». [Continua in basso]

Mannollo, Santolla e gli altri

Giancarlo Pittelli in una foto d’archivio con la toga

Altro “inedito” è il narrato di Dante Mannolo, che racconta della presunta consegna di 100 milioni di vecchie lire operata dall’ex parlamentare di Forza Italia nella compravendita di un villaggio turistico: i soldi sarebbero stati consegnati al padre del collaboratore, ovvero il presunto boss di San Leonardo di Cutro Alfonso Mannolo, per la sua mediazione nell’affare. Così come un inedito è il racconto di Angelo Santolla, gola profonda del clan Perna di Cosenza, che riferisce come in seno alle cosche Pittelli, in veste di avvocato, fosse accreditato – al pari di «Marcello Manna» – per la capacità di acquisire e riferire informazioni riservate. Le dichiarazioni invece più recenti sono quelle acquisite dal Ros grazie all’interrogatorio di Antonio Genesio Mangone, pentito di origini cosentine plurinquisito per mafia nelle regioni del Nord Italia, già detenuto con due presunti esponenti di rilievo della ‘ndrangheta vibonese, ovvero Gianfranco Ferrante e Michelangelo Barbieri. Mangone riferiva, il 10 novembre 2021, come Pittelli, secondo Ferrante fosse «uomo a disposizione della famiglia Mancuso «apriva conti correnti, faceva ottenere agevolazioni nell’ambito sanitario, affidamenti dalle banche, faceva conoscere persone importanti, come direttori di banca e anche politici». E ancora: «Gli brillavano gli occhi quando parlava di lui». E infine: «Ricordo che in molte occasioni quando Ferrante rientrava dalle udienze del processo Rinascita Scott diceva che Pittelli era il perno principale della famiglia Mancuso, nel senso che molti affari del clan e la risoluzione di problematiche varie del sodalizio passavano dalle sue mani».

L’omicidio di Mario Mirabile

Giuseppe Farao

L’asserita propensione del penalista catanzarese a condizionare, attraverso presunti illeciti interventi, la magistratura giudicante, viene raccontata da altri ulteriori tre collaboratori: Francesco Farao, dell’omonimo clan cirotano, Nicola Acri, l’ex boss rossanese conosciuto come “Occhi di ghiaccio”, e Domenico Critelli, capomafia di Cariati. Sarebbe stato proprio Pittelli, secondo il racconto di tali collaboratori, a prodigarsi per l’assoluzione dei fratelli Giuseppe e Silvio Farao, padre e zio del pentito Francesco, nel processo per l’omicidio di Mario Mirabile, consumato il 31 agosto 1990 a Corigliano Calabro. Un’assoluzione per la quale sarebbe stata pagata la somma di 300.000 euro che, però, non fu ottenuta dagli imputati, i quali furono condannati alla pena dell’ergastolo. «Dopo la condanna di mio zio e di mio padre abbiamo interrotto i rapporti con Pittelli, che non ha più assistito membri della mia famiglia nucleare», ha spiegato Farao agli inquirenti. Nel dettaglio, i Farao sono stati condannati in primo grado, assolti in appello, la Cassazione ha annullato con rinvio per un nuovo giudizio di secondo grado, che ha confermato le condanne, poi rese definitive dalla Suprema Corte nel 2009. I pentiti collocano la presunta azione corruttiva successivamente alla prima decisione della Cassazione che ha annullato le assoluzioni. [Continua in basso]

Petrini, Saraco e Fondacaro

Pittelli e l’ex giudice Petrini

L’informativa del Ros contempla anche le dichiarazioni dell’ex presidente della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro Marco Petrini e dell’avvocato Francesco Saraco. Da evidenziare, per completezza d’informazione che, in relazione alla “vicenda Petrini”- così come ha evidenziato proprio Pittelli con le sue dichiarazioni spontanee rese nel corso del maxiprocesso Rinascita Scott – la Procura di Salerno ha già disposto l’archiviazione di un procedimento a suo carico. Quanto invece all’appartenenza massonica «coperta» dell’ex parlamentare, un inedito è rappresentato dal narrato di Marcello Fondacaro di Gioia Tauro. Fonte delle sue conoscenze sarebbe Francesco Grande Aracri. Pittelli – che riporta, appunto, conoscenze de relato – riferisce che il penalista catanzarese avrebbe curato nell’interesse dei clan delle «macro iniziative imprenditoriali», sia nel Crotonese che nel Vibonese.

Imponimento e Malapigna

Ulteriori acquisizioni investigative a carico di Giancarlo Pittelli, ad opera del Ros, vengono attinte da altri due procedimenti sviluppatisi parallelamente a Rinascita Scott: Imponimento, della Dda di Catanzaro, in ragione dei rapporti intessuti con l’imprenditore vibonese, ritenuto collegato al clan Anello, Francesco Mallamace, e Malapigna, in relazione alla cura degli interessi dell’imprenditore Rocco Delfino, prima legato ai Molè, poi ai Piromalli di Gioia Tauro.

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