Il 4 dicembre del 1864, esattamente 160anni fa, veniva celebrata la posa della prima pietra per la costruzione del porto di Santa Venere. Per i tempi di realizzazione dell’opera, le cose nell’800 non andavano meglio di oggi. I lavori verranno finiti, collaudati e consegnati al comandante della Delegazione di Spiaggia di Pizzo ben venti anni dopo, nel 1886; ne passeranno altri 50 per la soppressione della Delegazione di Spiaggia di Pizzo e l’istituzione della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia (cfr. Antonio Montesanti “Il porto ritrovato”). L’unica relazione esistente dell’evento è quella redatta dal sindaco di Pizzo, l’avv. Filippo Ignazio Melecrinis ed inviata al Ministero dei Lavori Pubblici. Il testo del Melecrinis che, oltre ad esser sindaco fu anche cultore di storia patria, fornisce una cronaca dettagliata di quella storica giornata. «La relazione rimane - fa osservare lo storico Montesanti - l’unica testimonianza dell’evento. Paradossalmente, non ne risulta esistente un’altra da parte del sindaco di Monteleone, nel cui territorio avvenne la costruzione del porto».

Nella sua relazione, il sindaco di Pizzo, con uno stile ridondante ma molto vivo, parla della presenza della banda civica, di un gran numero di imbarcazioni che, issando il gran pavese, solcano il breve tratto di mare per arrivare al “romantico paese che, adagiandosi sulle ultime falde di un irto scoglio, riflette nelle placide e tranquille onde del Mediterraneo le sue mille finestre. I balconi, gli sporti, le piazze, il litorale, erano gremiti, brulicavano di genti e milioni di bandiere di ogni colore sventolavano dai campanili, dai balconi e dalle merlate del Casatello di Ossuna”.

Naturalmente, il paese descritto non era Porto Santa Venere, dove all’epoca esistevano poche baracche in legno di pescatori, bensì Pizzo, che considerava la nascita del porto come un importante evento per la città napitina. «Il taglio del nastro alla sua inaugurazione è stato fatto dal sindaco di Pizzo- commenta sui social Santino Galeano- la benedizione è stata impartita dai monaci del convento di San Francesco, la banda musicale era quella di Pizzo, le campane che hanno suonato a festa erano quelle delle molteplici chiese di Pizzo e le finestre delle case inghirlandate erano quelle delle case dei pizzitani, oltre a tutte le autorità civili e militari intervenute, che avevano sede a Pizzo».

Furono infatti i pizzitani che, più di Monteleone, si spesero per la costruzione dell’opera marittima, alla quale avrebbero anche destinato risorse finanziarie, mentre il consiglio comunale di Monteleone oppose un rifiuto al cofinanziamento dei lavori e molti furono i consiglieri che avanzarono forti riserve considerando il porto di nessuna utilità per l’economia monteleonese.

In effetti, il contesto socio-economico della città collinare era, e rimane, estraneo a qualsiasi tipo di “blue economy” e, anche nel nome, Monteleone non poteva certamente essere identificata come una città di mare. Nondimeno, ricadendo il porto nel suo territorio, le speranze dei pizzitani di avere uno scalo marittimo che sostituisse quello del porticciolo della Marina di Pizzo, non più idoneo all’incremento dei traffici marittimi, rimasero deluse. Se il porto fosse stato costruito in epoca borbonica, forse le cose sarebbero andate diversamente.

I ragazzi della Fanfara del Porto sfilano lungo le vie di Vibo Marina

I pizzitani avrebbero, da allora, considerato questo fatto come un vero e proprio scippo perpetrato ai loro danni. Scarso o nullo sarà, nei decenni successivi, l’interesse di Monteleone e poi Vibo Valentia per il “suo” porto. Forse nasce da queste vicende storiche la situazione di disinteresse e negligenza che, per lunghissimo tempo, ha subìto il porto di Vibo Marina, fino ad arrivare alla condizione odierna in cui, ormai passata la governance in mano all’AdSP di Gioia Tauro, il porto che avrebbe dovuto, in maniera logica, essere gestito da una città di lunga tradizione marinara come Pizzo, vive ancora una situazione di subalternità e marginalità.