Nei programmi del governo borbonico prima e dello Stato unitario dopo l’infrastruttura doveva diventare lo scalo marittimo principale tra Salerno e Reggio. Oggi, lasciato privo di interventi di ampliamento e ammodernamento, è costretto a svolgere il ruolo di cenerentola del sistema portuale calabrese
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Tutto inizia sulla fine del Settecento. All’indomani del disastroso terremoto del 1783, che fu il sisma più catastrofico che colpì la Calabria, il governo del Regno di Napoli aveva assegnato ad uno dei suoi uomini migliori, l’economista Giuseppe Maria Galanti, la missione di visitare la Calabria. Il “Giornale di viaggio” che Galanti scrive in questa occasione è una straordinaria testimonianza sullo stato della regione quasi all’inizio dell’800, ma che svela anche molteplici e inquietanti tracce di un passato ancora troppo attuale. Tra le sue relazioni all’ammiraglio Acton, ministro della Marina, vi è quella del 1793. “Tra il fiume Trainiti ed il Pizzo - così scriveva Galanti - li genovesi hanno scoperto un luogo assai adatto al porto, detto oggi santa Venera…il luogo merita attenzione. Nel fare presente che già nel 1784, nel quadro delle opere di ricostruzione dei danni del terremoto, l’architetto Giuseppe Vinci di Monteleone aveva progettato una strada che da Monteleone portava alla marina di Bivona (teniamo presente che, dopo oltre due secoli e mezzo, mentre si sono costruite strade che uniscono il nulla al niente, ancora non si è riusciti a realizzare un collegamento rapido tra il capoluogo e il suo porto e l’unica strada rimane quella che segue il tracciato dell’antica via delle Calabrie, anch’essa costruita in epoca borbonica).
Il Galanti così continuava: “Tra le cose degne dell’intelligenza di vostra eccellenza, io credo che la più vantaggiosa e la più degna dei benefici sguardi del sovrano sia la costruzione di un porto che la natura ci ha additato quasi in mezzo alla lunga costa da qui a Messina, la quale per lo lungo corso di 300 miglia è del tutto mancante del menomo sicuro ricovero de’ bastimenti. In quella marina vedesi, formato dalla natura, un seno ben grande, garantito da una lingua di terra che si estende nel mare per circa mezzo miglio in forma quasi semicircolare e che dà l’idea di un magnifico e sicuro porto”. Qualche anno dopo, nel 1805, arrivano i Francesi. Durante il decennio napoleonico, il generale del Genio, de Montmayor, dietro incarico del nuovo governo insediatosi a Napoli, dopo opportuni studi, aveva indicato, come il più idoneo, il punto detto Santa Venere, nel territorio vibonese. Rientrati i Borbone dopo la Restaurazione, scartate per opposte ragioni Reggio, Sculla e Paola, una lunga disputa, durata oltre sessanta anni, oppose Tropea da una parte e Monteleone e Pizzo dall’altra.
Dopo una miriade di relazioni, perizie, piante, fatte da innumerevoli commissioni, il Re di Napoli decreterà, nel 1858, la costruzione del porto scegliendo Santa Venere. Ma il merito principale di quella scelta si deve all’intuizione del Galanti, che può essere considerato uno dei più grandi economisti dell’epoca, anche se il suo nome è oggi pressoché sconosciuto nel territorio che, grazie alla sua intuizione, è riuscito a svilupparsi nel corso del tempo. “Il luogo merita attenzione”, affermava Galanti e non è inverosimile supporre che, nei progetti del governo borbonico, la rada di Santa Venere fosse stata individuata come un’area su cui puntare per uno sviluppo più generale del territorio. Ma non ce ne fu il tempo. Il Regno delle Due Sicilie era già all’epilogo, per cui non ci fu la possibilità di realizzare il grande porto pensato da Galanti. Tuttavia il governo italiano post-unitario, riconoscendole valide, fece sue le intuizioni del Galanti e vennero finalmente avviati i lavori per la costruzione del porto, che venne inaugurato il 3 dicembre del 1865. Al momento dell’Unità, ad eccezione del vecchio e quasi inutilizzabile, per via dell’interramento, porto di Crotone, la Calabria non possedeva altri porti. In provincia di Reggio, lo “scaricatoio” di Gioia Tauro (così classificato in quanto si scaricavano i prodotti della Piana, principalmente olio e agrumi) non possedeva neppure la boa d’ormeggio e lo stesso capoluogo, Reggio Calabria, era privo di porto.
L’unico porto tra Napoli e Messina era quello di Santa Venere che era, quindi il più importante della Calabria e per un lungo periodo divenne uno scalo marittimo commerciale in cui venivano movimentati prodotti di ogni genere provenienti dall’Italia e dall’estero. Ma con il passare degli anni l’infrastruttura, lasciata priva di interventi di ampliamento e ammodernamento, lasciava da parte ogni velleità di sviluppo trasformandosi in un porto la cui movimentazione sarà costituita, per il 70%, dal trasporto di prodotti petroliferi.
Per recuperare il terreno perduto, occorre oggi un coinvolgimento di tutti gli attori impegnati nel sistema portuale: Ministero delle Infrastrutture, Regione, Comune, Autorità di Sistema Portuale, imprenditori privati. Quello di Vibo Marina appare tuttora come il “porto delle nebbie”, avvolto dalle foschie dell’incertezza e dell’opacità nonché dalla fumosità di progetti e finanziamenti rimasti sempre sulla carta per poi dissolversi nel nulla. E il tempo passa, come scandito da un pendolo che oscilla tra disinteresse e ritardi (scusa Schopenhauer).
Non rimane che concludere con le parole di G.M. Galanti che, anche se scritte nel Settecento, sono ancora attuali: “questo luogo merita attenzione”, esortazione che oggi andrebbe girata agli organi competenti affinché si eviti di gettare alle ortiche ciò che la Natura e la Storia hanno consegnato.

