Dal 1997 a oggi la metamorfosi di un servizio che teneva il passo e invece oggi rischia il collasso. Medici e infermieri allo stremo, missioni quadruplicate, mezzi insufficienti e tempi di intervento che esplodono
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Un servizio costruito con fatica, consolidato negli anni, modellato dall’esperienza sul campo e dalla conoscenza profonda di un territorio difficile. «C’era una volta il Suem 118», racconta l’operatore Giuseppe Ventrice, autore di una lunga e dettagliata analisi sul declino dell’emergenza sanitaria nella provincia di Vibo Valentia. Un racconto che parte dal 1997, anno di nascita del servizio, quando cinque postazioni di emergenza territoriale – Tropea, Vibo 1 e 2, Soriano Calabro e Serra San Bruno – rappresentavano la rete salvavita di un’area orograficamente complessa, montuosa, fragile e con collegamenti spesso insufficienti.
Nonostante difficoltà strutturali e tecnologiche, mancata copertura radio e viabilità precaria, il sistema riusciva a reggere. La forza stava nel personale: motivato, formato, capace di sopperire alla mancanza di geolocalizzazione con la conoscenza capillare del territorio. I dati lo confermano: per oltre vent’anni i tempi di intervento – benché compromessi da condizioni oggettive – si mantenevano in linea con gli standard nazionali.
Poi è iniziata la lenta corrosione. Gli ospedali vibonesi, privati nel tempo di reparti e servizi fondamentali, hanno riversato sul 118 un carico crescente di trasferimenti, consulenze e centralizzazioni che hanno sottratto mezzi e personale alle vere emergenze. A questo si è aggiunto il collasso della medicina territoriale, sempre meno presente e sempre più sostituita, di fatto, dal servizio di emergenza.
La svolta del 3 marzo 2024 – lo “switch” verso il nuovo modello regionale – avrebbe dovuto migliorare le cose, introducendo geolocalizzazione avanzata, digitalizzazione e coordinamento unificato. Ma le criticità, secondo Ventrice, sono esplose. La Sala Operativa 116-117, deputata ai trasferimenti secondari, avrebbe finito per «distrarre risorse vitali» dall’emergenza primaria, moltiplicando le missioni senza aumentare i mezzi disponibili. Ne è derivato un sovraccarico insostenibile: invii immotivati, interventi duplicati, tempi di risposta dilatati, aumento dei casi gravi non trattati tempestivamente.
Parallelamente, gli operatori – medici, infermieri, autisti soccorritori – sono stati schiacciati da turni infiniti, ordini incoerenti, responsabilità crescenti e riconoscimenti economici insufficienti. Il risultato è un progressivo abbandono del servizio, la demedicalizzazione delle ambulanze e il rischio concreto di perdere anche gli infermieri, ultimi presidi sanitari rimasti a bordo.
Secondo Ventrice, tutto ciò somiglia a «un programma di smantellamento del servizio pubblico di emergenza/urgenza», funzionale – volontariamente o meno – a un futuro modello privatizzato. Ma la sua riflessione non è solo una denuncia: è anche un appello.
«È utopica ma non impossibile l’idea che potrebbe esserci ancora una possibilità per porre rimedio a questa catastrofica situazione», afferma. Una speranza che si regge su alcuni pilastri precisi: una governance regionale equa e rappresentativa di tutte le aree, la redistribuzione dei fondi in base ai reali bisogni, la restituzione dei servizi sottratti ai territori più penalizzati, il ripristino delle competenze locali e delle dotazioni tecnologiche necessarie.
Per Ventrice, dunque, il rilancio del 118 non è un sogno ingenuo, ma una possibilità concreta: difficile, sì, ma non irrealizzabile. Un impegno che richiede volontà politica, visione strutturale e rispetto del diritto alla salute dei vibonesi, un diritto che – conclude – «va reintegrato, non proclamato».
Perché c’era una volta il Suem 118, ma potrebbe ancora esserci. A condizione che la speranza non resti soltanto una riga scritta in un comunicato: che diventi una scelta, una direzione, un atto di responsabilità collettiva.

