Nel dibattito acceso sulla secessione dei Comuni montani dalla Provincia di Vibo Valentia interviene lo storico e scrittore meridionalista (nonché rappresentante territoriale del M5s)  Michele Furci, che non usa mezzi termini per criticare l’impostazione e i presupposti dell’iniziativa. Secondo Furci, si tratta dell’ennesima dimostrazione di un ritardo culturale e politico che continua a frenare la crescita delle aree interne calabresi.

L’autore osserva come il confronto politico locale sembri ignorare il contesto storico contemporaneo. «Quando un amministratore, in un’epoca in cui si parla di intelligenza artificiale, digitalizzazione e mercato del lavoro in competizione globale, confonde l’azione politica con gli assetti istituzionali – afferma - vuol dire che siamo lontani anni luce dalle vere cause del ritardo di Serra San Bruno e della Calabria». A suo giudizio, la discussione sulla secessione appare quasi surreale, perché ripropone una mentalità amministrativa antiquata, incapace di leggere i bisogni reali delle comunità: «Emerge una cultura che guarda molto, ma molto indietro nel tempo, un regresso amministrativo che azzera un secolo di lotte per la democrazia politica ed economica».

Furci ricorda che la normativa degli enti locali assegna ai sindaci un ruolo centrale nello sviluppo dei territori e che una provincia non è una semplice etichetta geografica o una sigla da cambiare sulla targa dell'auto. «La Provincia non è soltanto la struttura politica, ma l’insieme degli uffici che governano le competenze delle articolazioni dello Stato democratico», sottolinea. Per questo considera illusorio pensare che passare da una provincia all’altra possa risolvere criticità storiche: «Sarebbe interessante conoscere una sola ragione per cui il cambio della sigla di una targa provinciale dovrebbe essere la panacea dei problemi».

Piuttosto, il limite principale è la mancanza di una visione progettuale. «Non emerge uno straccio di elaborazione politica che valorizzi risorse, storia manifatturiera, patrimonio ambientale e monumentale», afferma lo storico, che denuncia come gli amministratori locali preferiscano elencare ciò che dovrebbero fare gli altri, senza concentrarsi su quanto rientra nelle proprie competenze. È una critica profonda, che investe l’intera classe dirigente: «Si assiste soltanto a un lamento, ma nulla di quanto spetterebbe a chi dovrebbe essere il motore dello sviluppo di un territorio».

La responsabilità, quindi, non è istituzionale ma politica: «I limiti e le carenze riguardano la volontà e gli interessi di chi gestisce indisturbato la Regione, il governo nazionale e quello europeo».

Furci richiama anche l’importanza storica del percorso che ha portato alla costruzione degli uffici periferici dello Stato e del ruolo delle province, ricordando l’impegno delle generazioni precedenti: «Ci si è mai domandato quante energie e altruismo abbia messo in campo la progenie che ci ha preceduto per conquistare gli assetti istituzionali di cui la classe politica odierna potrebbe godere?».

In conclusione, per lo scrittore meridionalista il problema non è cambiare provincia, ma cambiare approccio. Il territorio, sostiene, non potrà mai progredire finché continuerà a guardare all’indietro, inseguendo soluzioni simboliche invece di affrontare le responsabilità politiche e progettuali di cui necessita per uscire realmente dal suo storico isolamento.