Ci sono argomenti che sono come nervi scoperti: finché nessuno li tocca restano silenti nel dibattito pubblico, ma basta sfiorarli per far saltare sulla sedia chi ascolta. È successo nell’ultima settimana con la chiamata alle armi del sindaco di Serra San Bruno, Alfredo Barillari, che chiede agli altri comuni montani del Vibonese di unirsi a lui per lasciare la provincia vibonese e ritornare sotto l’amministrazione di Catanzaro.

Non è certo una novità. Si parla di questo praticamente da quando la Provincia di Vibo è nata sulla carta con la Legge 142 del 6 marzo nel 1992 che portava la firma del senatore Antonino Murmura, che sin dalla fine degli anni ‘60 cullava questo sogno di autonomia territoriale. Un sogno che per molti oggi pare si sia rivelato un incubo.

Esplicite in questo senso le parole del sindaco di Simbario, Gennaro Crispo, che sentito da Il Vibonese si è spinto addirittura a utilizzare un’ardita metafora geopolitica: «Sarebbe come passare dal Terzo Mondo agli Stati Uniti», dove al posto delle iconiche Highway Usa a 18 corsie ci sarebbero delle molto più modeste strade provinciali a due, ma almeno transitabili e più sicure di quelle presenti nel Vibonese. Con Barillari e Crispo si sono subito schierati i sindaci Rossana Tassone (Brognaturo) e Francesco Fazio (Fabrizia).

Più scaltra invece la reazione di Antonio Rosso, sindaco di Spadola, che non ha detto No, ma ha cercato di stanare le finalità politiche del collega di Serra ricandidato alla guida del Comune nelle amministrative di primavera. Ma al netto degli utilitarismi politici, è fuori dubbio che l’ambizione di tornare con Catanzaro è un’idea che nelle Serre vibonesi gode di grande consenso popolare.

Che l’argomento sia particolarmente sentito dall’opinione pubblica vibonese lo dimostrano le migliaia di interazioni che questi articoli hanno avuto sulle pagine social del nostro giornale. E anche con commenti estremamente argomentati, puntuali e approfonditi, cosa che purtroppo avviene sempre più raramente sui social.

In questo caso non è stato così. Al netto di chi crede che tutto debba essere affrontato come una partita di calcio - o con me o contro di me - sono decine i commenti appassionati e articolati a favore di una o dell’altra tesi.

Ciò che è certo è che dietro questo reale interesse si celano profonde disillusioni e l’unica vera differenza è tra chi crede che il futuro possa essere diverso, e dunque occorre proteggere il gonfalone dell’autonomia in vista di un domani migliore, e chi invece è convinto che ormai non ci sia altra alternativa che lasciar perdere e tornare con Catanzaro, magari insieme a Crotone, in blocco e non Comune per Comune. Un ritorno al passato che - basta il pensiero - vanifica una battaglia politica e identitaria durata oltre trent’anni.

Già negli anni Sessanta e Settanta, infatti, diversi amministratori locali vibonesi - sostenuti da parlamentari e movimenti civici - chiedevano con forza l’autonomia da Catanzaro.

Forse, il vero paradosso risiede nel fatto che Vibo Valentia è stata protagonista della vita culturale e politica calabrese proprio quando non era una Provincia e sulle targhe delle auto c’era impresso CZ. Il suo declino, cominciato alla fine degli anni ’80, si è in un certo modo cristallizzato proprio con il raggiungimento dell’agognata autonomia 15 anni dopo, quasi ci fosse una sorta di asincronia tra una realtà prima vivida e la sua tardiva investitura politica e amministrativa. Insomma, anche in questo caso la politica era in forte ritardo, e una volta creata la Provincia di Vibo, a metà degli anni ’90, i motivi che ne avevano giustificato l’ambizione hanno cominciato a svanire.

Il mostro giuridico rappresentato dalla legge Delrio ha fatto il resto, depotenziando l’ente provinciale e la sua capacità gestionale. Così, oggi, Vibo è la periferia grottescamente più centrale della Calabria. Dove c’è un porto dalle straordinarie potenzialità commerciali che langue in attesa di un rilancio che non arriva, una costa che vanta le località calabresi più famose al mondo ridotta a enclave turistica buona per i reel su Instagram ma nella quale è difficile arrivare e uscire per la totale mancanza di servizi, una montagna bellissima e mistica ridotta all’isolamento da strade impossibili e dall’indifferenza di una politica che ragiona ancora per feudi.
Il resto è un contesto di immobilismo trentennale, dove ogni cosa, tranne la ‘ndrangheta, ha smesso di muoversi proprio quando la Provincia faceva i primi passi.