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A cavallo degli anni ’60/’70 iniziò il sogno industriale di Vibo Marina. Erano gli anni del boom economico, del “benessere dietro l’angolo” e tutti i governi dell’epoca propendevano per l’industrializzazione del Paese, Mezzogiorno compreso. Il turismo non era ancora, a quell’epoca, una voce significativa per la regione e la Calabria non era ancora diventata una meta per vacanzieri. Fu così che alla già esistente cementeria si aggiunsero altri importanti insediamenti industriali del gruppo Eni (Nuovo Pignone, Snam Progetti) oltre a diverse strutture produttive come la CGR nel settore della chimica, la Saima, industria di mattonelle, e la Gaslini nella lavorazione della sansa. Ma la parte del leone la fecero le compagnie petrolifere, che costruirono nel territorio costiero i loro depositi per lo stoccaggio di idrocarburi, riforniti da navi petroliere. Non vi era molto rispetto per l’ambiente e le spiagge furono per anni invase dal catrame proveniente dal lavaggio delle stive delle navi-cisterne. Il censimento del 1971 evidenziava come gli occupati nell’industria, nel territorio vibonese, fossero avanzati del 32%. Ma appena dieci anni dopo il sogno industriale era già svanito in un miraggio e iniziava un lento ma inesorabile declino che giunse fino all’odierna desertificazione industriale.
Il porto, che in quegli anni aveva registrato un apprezzabile incremento del traffico commerciale, lasciava da parte ogni velleità di sviluppo limitandosi ad ospitare distaccamenti militari, ma soprattutto petroliere, che rappresentarono circa il 70% dell’intero traffico commerciale. La deindustrializzazione non aveva infatti minimamente interessato il settore petrolifero, con il risultato che la cittadina portuale divenne per buona parte occupata dai depositi costieri, peraltro ubicati in zone antropizzate. I beneficiari di questa nuova situazione furono soltanto tre: le compagnie petrolifere, che aumentarono i loro profitti, lo Stato e la Regione, che incassavano milioni su milioni sulle accise. Minime furono invece le ricadute economiche per il territorio, che dovette invece subire un peggioramento delle condizioni ambientali sia per la presenza degli enormi serbatoi, ubicati in zone densamente popolate, sia a causa dell’inquinamento atmosferico ed acustico per il continuo andirivieni delle autocisterne. Di conseguenza, se si analizza il rapporto costi/benefici, il risultato si può considerare sbilanciato a favore del primo elemento.
Naturalmente, una delocalizzazione della struttura non avrebbe effetti taumaturgici, non esiste automatismo tra lo spostamento dei depositi e una fioritura economica di Vibo Marina favorita dal turismo. Una futura scomparsa dei serbatoi non potrà avere come conseguenza immediata che, come per incanto, dal giorno dopo il porto si riempirà di navi da crociera e yacht e le strade saranno intasate da file di autobus carichi di turisti. Per trasformare una località in chiave turistica e farla diventare attrattiva occorre una serie di interventi il cui risultato può essere raggiunto solo dopo anni di fattivo impegno e programmazione. Occorrono servizi efficienti, un ammodernamento urbanistico, esercizi commerciali, strutture ricettive e ricreative, locali di intrattenimento, con l’obiettivo di favorire soprattutto l’imprenditorialità e l’occupazione giovanile. Ma una delocalizzazione dei depositi potrebbe essere anche la spinta per attrarre investimenti da parte di privati e consentirebbe di aprire la strada anche ad un tipo di turismo convegnistico-fieristico e quindi destagionalizzato. Questi interventi sarebbero un elemento in più da proporre nell’offerta per acquisire investitori, accanto alle caratteristiche tradizionali quali la collocazione geografica, la vicinanza alle principali vie di comunicazione e soprattutto un clima favorevole e un paesaggio gradevole.
Inoltre, paventare una eventuale declassificazione del porto è fuorviante in quanto nella situazione attuale il traffico commerciale, se si esclude quello petrolifero, è rappresentato quasi esclusivamente dai pochi cargo che imbarcano i macchinari prodotti dal polo metalmeccanico. E quindi l’infrastruttura non produce la ricchezza dovuta, come avviene nei porti dello stesso livello, né è giustificato il timore che possa venire meno la presenza di importanti presidi, come Guardia costiera, Guardia di finanza, Vigili del fuoco, ecc. in quanto la loro presenza non è collegata alla classificazione del porto o al livello di movimentazione commerciale, ma alla posizione strategica dello scalo marittimo vibonese. Viene sempre sottolineato come il porto di Vibo Marina sia un porto polifunzionale, ma in realtà tutti i porti lo sono, ognuno possiede però una specifica vocazione. È giunto forse il momento che il porto decida cosa vuole fare da grande, non dimenticando che la vocazione di un porto è senza dubbio determinata dall’economia del territorio in cui esso è inserito e, in presenza di una deindustrializzazione avanzata, diventa giocoforza cercare di cogliere altre opportunità. Il sindaco Romeo continua a tenere la barra diritta, deciso ad andare fino in fondo per avere la meglio sulle resistenze delle aziende, mentre anche i lavoratori fanno sentire la loro voce, preoccupati per il loro futuro. Ma l’ora delle decisioni importanti è ormai alle porte.

