Ai piedi della rupe, dove un tempo c’era la Grotta Azzurra e il blu cobalto del Tirreno riempiva occhi e anima, oggi domina il calcestruzzo. E anche il molo Pizzapundi non se la passa bene
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C’è un muretto alla Marina di Pizzo, con una scritta ormai sbiadita dal tempo, che riporta l’ultimo verso di quella che probabilmente è l’ode più bella del genio recanatese: “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. La poesia è quella, celeberrima, de “L’infinito”, in cui Leopardi ricorda “l’ermo colle” del Monte Tabor da cui guardava il mare e quell’ infinito in cui il suo pensiero amava perdersi.
Di certo al posto dei “sovrumani silenzi “e della “profondissima quiete”, alla Marina d’estate si sentono sovrumani fracassi e profondissima caciara, ma, almeno fino a poco tempo fa, oltre quel muretto, si poteva vedere il mare. Oggi una barriera di blocchi di cemento nasconde la distesa azzurra, realizzando un tutt’uno con quella sorta di Linea Maginot di cemento per quello che diventerà il lungomare fino alla Seggiola. A proposito, probabilmente Pizzo è l’unico paese costiero italiano (o Città, Comune, chiamatelo come vi pare) dove prima hanno tolto un tratto mare, per poi farci un lungomare da dove il mare… non si vede. Almeno (si spera) solo per adesso.
Oltre mezzo secolo: è questo il tempo incredibile durante il quale quella che era la caratteristica straordinaria di un agglomerato urbano letteralmente affacciato sul mare (“Il Pizzo”), era stata dapprima cancellata per sempre da tonnellate di terreno di riporto, per essere poi utilizzata per decenni come una discarica o una stazione di raccolta per le fogne. Un oltraggio all’identità dei luoghi, un’onta al paesaggio, da sempre denunciati, e che non potranno mai più essere riparati.
I tuffi spericolati dalla “Rotonda”, l’ingresso nella “Grotta Azzurra” (senza l’azzardo di paragoni, per carità), quel terrazzo del “cinema Mele” a strapiombo sul blu cobalto del mare che valeva da solo il costo del biglietto; per non dire della bellezza struggente della baia della Seggiola, anch’essa non ancora sfregiata dal cemento. Tutto cancellato, abbruttito, tutto relegato nelle vecchie foto e nei ricordi di chi quel mare e quella bellezza li hanno vissuti, nostalgici lodatori digitali del tempo passato.
Dal lato opposto resiste il molo, “a Pizzapundi”, altro simbolo più volte danneggiato, riparato, e di nuovo lesionato dopo interventi del tipo “togli e metti, togli e metti”, ultimo baluardo a difesa di quel che rimane dell’antica spiaggia, anch’essa fatta scomparire dall’insipienza umana prima ancora che dalla forza delle onde. I massi che lo proteggevano sono stati rimossi e ormai da tempo si aspetta un intervento che li possa rimettere al loro posto, prima che si scateni il dio Nettuno, fino a spezzarlo di nuovo come accadde sette anni fa. Ormai ho perso il conto dei mesi (anni?) trascorsi dagli annunci altisonanti dell’arrivo di un pontone che potesse ripristinare lo status precedente, restituendo al molo la funzione che gli è propria. Magari creando una robusta barriera soffolta sul lato scoperto della Marina per mitigare l’impatto dei marosi che, alla prima occasione e stando così le cose, potrebbero provocare danni irreparabili allo stesso lungomare Cristoforo Colombo, con conseguenze incalcolabili per l’economia e il turismo del paese.
La speranza è che almeno la “Pizzapundi” venga risparmiata dall’ennesimo, intollerabile scempio, che si possa tornare a passeggiarci sopra senza muraglie di cemento, ma guardando l’infinito, e riscoprire la dolcezza del naufragar nel nostro mare.
*responsabile Settore conservazione Wwf Vibo Valentia

