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di Rocco Greco
La storia che stiamo per rivelare, raccontata con perizia di particolari da David Donato su “Calabria Letteraria”, aprile-giugno 1987, ebbe inizio il 6 luglio 1913 allorquando alla stazione ferroviaria di Pizzo si fermò il treno che depose a terra la statua di San Giorgio in sella al suo cavallo rampante. Tale vicenda, ad ogni modo, fa parte della memoria storica di un’intera collettività, quella pizzitana, della quale ancora oggi se ne conserva traccia. La statua del santo cavaliere originario dell’Asia Minore, patrono della città, era stata acquistata per essere collocata nella chiesa matrice a lui dedicata e che vanta di essere la più antica collegiata della diocesi di Mileto. L’opera era stata commissionata allo scultore tirolese Josef Runggaldier per sostituire il “Sa’ Giorgèju”, così soprannominato dai pizzitani perché trattasi di un mezzobusto di dimensioni modeste risalente al XVIII secolo e laminato in oro ed argento, tutt’ora presente nella chiesa e che si narra sia stato donato dai pescatori amalfitani di corallo, che in queste acque sovrabbondava di qualità eccelsa. La scultura lignea del cavaliere cappadoce era a grandezza naturale e non appena venne esposta al pubblico la cittadina si divise tra quanti furono entusiasti del lavoro dell’artista altoatesino e quelli, la stragrande maggioranza, che si dissero scandalizzati, tanto da fare insorgere una sorta di sommossa popolare. Il motivo di tanta avversità nei confronti dell’opera fu che l’animale, che si alzava sulle zampe posteriori, mostrava in bell’evidenza i suoi attributi riproduttivi, ritenuti di proporzioni eccessive così da offendere la vista dei fedeli in preghiera.

Sa’ Giorgi cu’ cavaju!
(di Rocco Greco)
Bellu Sa’Giorgi era a cavàju
E di grandi bellizza lu destrieru,
Fattu cu’ grandi arti, parìa veru
‘Mberiosu e fieru supra ò pedistàju!
Ma naturali assai u fici l’artista,
Menzu paìsi e cchjù s’arrivotàu
E l’arcipreti, li peni chi passàu
Pe’ l’attributi esposti ‘mbella vista!
«Chija vrigogna chi havi jà mbizzu
Oh maramìa, oh chi grandi offesa
No’ esti cosa mu staci nda chjesa,
Viatu ha mu scumbàri, mo’ du Pizzu!»
U povaru donn’Artesi dispiaciùtu,
n’hav’ìa cchjù sandi a quali mu si vuta
pe’ mu ndi nesci fora mu l’aiuta:
nda quali ‘mbrogghju chi s’havìa mendùtu!
Tutt’u paisi ngi mangiava ‘a facci,
Puru amminàzzi, no’ sulu rimbrotti
Pe’ curpa ‘i ‘sti pizzochi, ‘i ‘sti bigotti
Ebbi mu’ caccia u sandu, cosi ‘i pacci!

