giovedì,Marzo 28 2024

‘Ndrangheta: le cosche nelle Preserre vibonesi, dai conflitti alla droga

Lo scoppio della faida, il dominio su Arena ed il ruolo dei pentiti nella sentenza della Cassazione sull'operazione "Luce nei boschi"

‘Ndrangheta: le cosche nelle Preserre vibonesi, dai conflitti alla droga

Approda ad una verità giudiziaria definitiva l’operazione “Luce nei boschi” che permette di delineare e ricostruire nel dettaglio decenni di dominio mafioso nelle Preserre vibonesi, all’ombra di un “locale” di ‘ndrangheta temuto e riconosciuto da più potenti clan del Reggino, quello di Ariola di Gerocarne, con interi territori sottomessi all’arroganza criminale. Sino al 1988 le famiglie Loielo di Gerocarne e Maiolo di Acquaro avrebbero rappresentato un unico gruppo mafioso. I rapporti si sono incrinati quando i fratelli Vincenzo e Giovanni Loielo sono usciti dal carcere usufruendo di vari permessi ed hanno chiesto di avere la loro parte nella gestione degli affari che prima gestivano in comune con i Maiolo. Sarebbe così scattato il primo tentato omicidio di uno dei fratelli Loielo, seguito dalla latitanza di entrambi e poi dal coinvolgimento nei sequestri di persona. L’avvio della faida è stato aggravato anche dagli interessi emergenti di Bruno Emanuele, prima vicino ai Loielo, poi intenzionato a guadagnare nuovi spazi criminali. Un’escalation giunta fino al duplice omicidio nel 2002 dei fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo, cugini di Giovanni e dell’omonimo Vincenzo Loielo, ad opera degli Emanuele che hanno così sostituito i Loielo quale “braccio armato” del locale di ‘ndrangheta di Ariola guidato dal boss Antonio Altamura. In tale contesto, secondo la Cassazione, un ruolo di spicco avrebbe avuto Antonio Gallace, quale referente del “locale” di Ariola nella zona di Arena. Un zona sulla quale Antonio Gallace divideva i proventi illeciti e le attività criminali proprio insieme agli esponenti della famiglia Loielo dal 1993 sino “sicuramente al 2009 in posizione di supremazia – spiega la sentenza – controllata dalla stessa famiglia Loielo. I due collaboratori di giustizia – Enzo Taverniti e Francesco Loielo – concordano nel riferire che Antonio Gallace, pur detenuto, ha continuato costantemente a governare il proprio gruppo criminale di riferimento tramite emissari liberi, sicchè “essere ristretto in carcere – sottolinea la Cassazione – non gli ha impedito di partecipare all’associazione mafiosa e di governarne le sorti con riferimento alla zona di Arena a lui demandata”.                          Un episodio importante ricostruito poi nella sentenza della Cassazione è anche il tentato omicidio ai danni del futuro collaboratore di giustizia Enzo Taverniti, cugino dei Maiolo di Acquaro ma al tempo stesso imparentato con i fratelli Giuseppe e Vincenzo Loielo. “Taverniti riferisce che è stato lo stesso Francesco Capomolla ad autoaccusarsi in sua presenza del tentato omicidio ai suoi danni, in un confronto che aveva avuto luogo alla presenza di Antonio Altamura, capo cosca e zio di Capomolla”. Inoltre risultano gli ulteriori riscontri delle ferite (escoriazioni o graffi) che Taverniti aveva direttamente osservato sul volto di Capomolla in ospedale la sera del tentato omicidio, nonché degli accertamenti di polizia giudiziaria. “L’episodio del tentato omicidio ai danni di Taverniti Enzo rappresenta – rimarca la Suprema Corte – uno degli eventi chiave della vita criminale dei gruppi di ‘ndrangheta oggetto del processo. Quali che siano stati i plurimi moventi per idearlo e realizzarlo (sui quali il collaboratore riferisce la confessione dello stesso Capomolla), non vi è dubbio che tale crimine si inserisca in pieno nelle dinamiche delinquenziali di lotte per la supremazia interna alle cosche e per l’affermazione, anche attraverso atti di vendetta, degli appartenenti di un gruppo familiare-criminale rispetto all’altro. Il movente individuato sarebbe, infatti, quello dell’omicidio di uno zio dei Maiolo del quale era stato ritenuto responsabile proprio Taverniti”. Il futuro collaboratore, quindi, è stato condotto “sul posto con uno stratagemma e lì ad attenderlo c’era il gruppo di fuoco del quale ha fatto parte proprio Capomolla, come risulta dalle sue stesse ammissioni al collaboratore e dalle dichiarazioni di altri soggetti coimputati (Maiolo Francesco e Maiolo Angelo) ed è stato riscontrato anche da alcuni significativi particolari come le ferite sul volto di Capomolla osservate la sera stessa del delitto in ospedale dove questi si era recato a trovare Taverniti, coincidenti con la dinamica dell’inseguimento del collaboratore successivo al suo ferimento”.                   Un capitolo a parte dell’operazione, ricostruito in sentenza è poi il traffico di stupefacenti e l’esistenza del clan degli Emanuele.  “I pentiti Oppedisano Rocco, Forastefano Antonio, Ganino Michele e Falbo Domenico hanno consentito di argomentare alla Corte circa l’esistenza di un gruppo, interno a quello facente capo ad Bruno Emanuele ed alla sua famiglia, dedito al traffico di sostanze stupefacenti, peraltro notoriamente costituente – rimarca la Cassazione – il core business delle associazioni di ‘ndrangheta. I collaboratori hanno preso parte direttamente al reato: in particolare, Oppedisano con la cosca degli Emanuele, grazie proprio all’introduzione in essa da parte di Pasquale De Masi, mentre Antonio Forastefano con il proprio gruppo criminale (gravitante nel territorio di Sibari), legato da collaborazioni delinquenziali con la cosca Emanuele soprattutto nell’organizzazione degli illeciti traffici di sostanze stupefacenti. Sono stati descritti i canali di approvvigionamento degli stupefacenti in particolare dall’Albania, tramite alcuni esponenti criminali pugliesi, e dall’Olanda”. Fondamentale si è infine rivelato l’ulteriore contributo dichiarativo di Enzo Taverniti, che ha collocato la cosca degli Emanuele tra quelle dedite al traffico di sostanze stupefacenti quale principale attività criminale mafiosa. In foto dall’alto in basso: Antonio Altamura, Francesco Capomolla, Antonio Gallace, Bruno Emanuele, Franco Idà (cognato di Emanuele) e Pasquale De Masi    LEGGI ANCHE: ‘Ndrangheta: per la Cassazione nelle Preserre vibonesi domina il “locale di Ariola”

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