«Il Giamborino anti ‘ndrangheta è una messinscena»: l’appello della Dda contro l’assoluzione per mafia nella sentenza Rinascita Scott
Per i pm l’ex consigliere regionale sarebbe stato legato alla locale di Piscopio. Contestata anche l’assoluzione di Gianluca Callipo: «Ha chiesto il consenso della cosca di Pizzo». Gli incroci tra l’ex sindaco e il boss Razionale
L’assoluzione di Pietro Giamborino dal reato di associazione mafiosa (per l’ex consigliere regionale è arrivata una condanna a un anno e 6 mesi per un reato minore) nel primo grado del processo Rinascita Scott sarebbe basata su una motivazione «insufficiente e contraddittoria». La Dda di Catanzaro mette nero su bianco nell’appello le ragioni per le quali chiede di rivedere quella pronuncia. E ripercorre un viaggio che inizia in un tempo antico, quando Giamborino non era ancora un politico arrivato agli scranni del Consiglio regionale, e si spinge fino agli anni dei successi elettorali maturati a Piscopio, dove sarebbe nata – secondo l’accusa – la presunta affiliazione al clan.
Già i giudici di primo grado evidenziano, in effetti, «l’esistenza di una vecchia locale di Piscopio negli anni 60-70, legata alla cosca di San Gregorio d’Ippona, di cui facevano parte diversi soggetti intimamente legati a Pietro Giamborino». E sottolineano i rapporti tra Giamborino e Saverio Razionale. Rapporti che emergerebbero, però, da un colloquio tra lo stesso Razionale e Giovanni Giamborino, uomo vicino al clan Mancuso, che «non è stato rinvenuto dal Collegio» nel materiale depositato. Quella conversazione, nella quale vengono commentati i risultati delle elezioni amministrative del maggio 2002 a Vibo, «in assenza di perizia e di file audio non può essere utilizzata dal Collegio». Sono sempre le motivazioni a illustrare l’«apprensione del politico» per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e l’interessamento del politico per un appalto: fatto rispetto al quale i giudici parlano di «equivocità quanto al ruolo di Giamborino». Tuttavia, nei confronti dell’ex consigliere regionale non viene raggiunta «la soglia probatoria necessaria ai fini di una condanna in relazione al delitto di partecipazione in associazione mafiosa o di concorso esterno».
«Giamborino – chiosano i giudici – fa parte verosilmente di quella “zona grigia” in cui i clan strizzano l’occhio alla politica e ne pretendono i favori dopo averla assecondata». I contorni del presunto patto stretto con il clan, tuttavia, «si intuiscono ma non si riescono a ricostruire con la dovuta precisione». Inoltre, «se certamente è emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e da alcune captazioni che Giamborino facesse parte del vecchio locale di Piscopio, ormai estinto e dal quale comunque prendeva le distanze negli anni 90 (quando iniziava la sua carriera politica) non può dirsi altrettanto per l’adesione dell’imputato al nuovo locale fondato nel 2009, sul quale si concentra il capo d’imputazione».
Il politico antindrangheta «è una messinscena»
È questo il cuore delle motivazioni che la Dda decide di impugnare quando rileva che «il Tribunale non ha correttamente inquadrato l’imputazione di cui risponde Giamborino operando una distinzione fra il vecchio locale di Piscopio e quello “nuovo” aperto da Franco D’Onofrio nel 2009, come se l’apertura o la chiusura di un locale di ’ndrangheta abbia effetti dirimenti sulla partecipazione o meno al sodalizio». Un cortocircuito, secondo i pm, che «lascerebbe lo spazio o il potere a una organizzazione criminale che dichiarando aperto o chiuso un locale possa o no essere perseguita dal punto di vista giudiziario». Per la Procura distrettuale, dunque, «non è stata comprese la portata della contestazione».
L’accusa non ritiene neppure che vi sia stato un allontanamento del politico dagli ambienti criminali all’inizio della propria carriera politica: «le convergenze intercettive e il dichiarato dei collaboratori di giustizia non vanno in quella direzione, anzi».
I magistrati antimafia parlano, in questo caso, di «una apparente presa di distanza dalla ’ndrangheta funzionale a non interferire con l’attività politica», cioè «una messinscena orchestrata ad hoc dall’imputato di cui risultavano documentate anni e anni prima le “frequentazioni” poco raccomandabili al fine di ripulire la propria immagina pubblica». Ne parlano i pentiti: sia Raffaele Moscato che Andrea Mantella («l’abbiamo conosciuto sempre come uno ’ndranghetista a Vibo Valentia si atteggiava, poi si è buttato in politica e voleva fare il paladino dell’Antimafia»).
È vero che con alcuni interlocutori Giamborino condanna la mafia di Vibo ma a nessuno di essi accenna «agli incontri serali con Salvatore Giuseppe Galati». Con Galati, anzi, non mostra il proprio profilo antimafia e si dimostra, anzi, «partecipe di problematiche associative sulla spartizione degli introiti dei lavori pubblici a Piscopio, piuttosto che coinvolto nella raccolta di preziose informazioni sulla presenza di attività delle forze dell’ordine nel paese o sulle future esecuzioni cautelari che li possano interessare».
In Giamborino coesistono due anime, «quella volutamente integerrima dell’uomo politico e quella più intima e segreta che emerge negli incontri con Salvatore Galati o Filippo Valia, nei quali si evince perfettamente il suo ruolo funzionale agli interessi del locale». Continua a leggere su LaC News24.