Ritenuta corretta dalla Corte di Cassazione l'ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha rigettato il reclamo avverso il decreto del Magistrato di sorveglianza con cui è stata disposto il visto di controllo della corrispondenza epistolare e telegrafica, in arrivo e in uscita, del detenuto al carcere duro (art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario) Pasquale Pititto, 58 anni, di San Giovanni di Mileto.

I motivi del ricorso

Il ricorrente Pasquale Pititto ha dedotto che il provvedimento impugnato si è fondato sulla valutazione del mero dato relativo all’attuale sottoposizione di Pititto al regime speciale del carcere duro (41 bis), unitamente alla posizione di vertice ricoperta nell’articolazione territoriale di Mileto per come emerso dagli esiti investigativi. Ciò alla luce delle note della direzione dell'istituto penitenziario e della Dda di Catanzaro, i cui “contenuti vengono richiamati per relationem nel provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Milano e poi nello stesso provvedimento impugnato”. Si tratterebbe per la difesa di una decisione “non conforme ai principi della giurisprudenza di legittimità che ha affermato che il provvedimento di sottoposizione al visto di controllo non può discendere dalla mera applicazione del regime speciale, altrimenti si tratterebbe di un’applicazione automatica che non richiederebbe il provvedimento giurisdizionale”.

Le ragioni della Cassazione

Nel ritenere il ricorso di Pasquale Pititto infondato, la Cassazione sottolinea che il Magistrato di sorveglianza di Milano ha ritenuto che il controllo della corrispondenza del detenuto si fondi su “elementi concreti, indicativi del rischio della trasmissione di missive pericolose”. Diversamente poi da quanto sostenuto nella deduzione difensiva, il provvedimento impugnato “non si è affatto fondato sulla mera constatazione della sottoposizione del ricorrente al regime speciale del 41 bis, avendo il Tribunale dato conto dei motivi a sostegno del rischio connesso alla trasmissione della corrispondenza”. Secondo la Suprema Corte, inoltre, l'ordinanza censurata “non si è limitata ad affermare che permane la necessità del controllo sulla corrispondenza per la possibilità per il ricorrente di mantenere contatti con esponenti liberi della organizzazione 'ndranghetista di appartenenza tuttora operante sul territorio, ma ha considerato anche gli ulteriori elementi sintomatici delle ragioni di sicurezza, quali gli esiti investigativi dai quali è emerso che il ricorrente riveste una posizione di vertice all'interno del consorteria criminale operante nel territorio di Mileto e, dunque, del suo ruolo di rilievo all'interno del locale di ‘ndrangheta di Mileto. Inoltre ha anche considerato gli esiti delle indagini patrimoniali, attestanti un tenore di vita elevato rispetto alle condizioni economiche conosciute”.

Il personaggio

Pasquale Pititto si trova ristretto in regime di carcere duro (41 bis) dal luglio dello scorso anno su decisione del Ministero della Giustizia. Si trova detenuto nell’ambito del processo Maestrale-Carthago, in corso di celebrazione dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia, in quanto accusato di essere il capo promotore di un’organizzazione mafiosa operante nel territorio del comune di Mileto. Pasquale Pititto sta inoltre scontando l’ergastolo per l’omicidio di Pietro Cosimo (esecutore materiale insieme a Nazzareno Prostamo), delitto consumato a Catanzaro negli anni ‘90 su mandato del boss dei Gaglianesi, Girolamo Costanzo, che pagò all’epoca per il fatto di sangue cinque milioni di lire ai due vibonesi.
Pasquale Pititto ha poi rimediato una condanna a 25 anni di reclusione definitiva nel processo nato dalla storica operazione “Tirreno” scattata nel 1993 ad opera dell’allora pm della Dda di Reggio Calabria, Roberto Pennisi. Unitamente al cognato Michele Iannello (collaboratore di giustizia e condannato per l’omicidio di Nicolas Green), Pasquale Pititto è stato ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio di Vincenzo Chindamo e del tentato omicidio di Antonio Chindamo, fatti di sangue commessi a Laureana di Borrello l’11 maggio 1991 su mandato del boss Giuseppe Mancuso di Limbadi (da qualche anno in libertà dopo aver scontato 24 anni di reclusione). Nel delitto dei Chindamo sono poi rimasti coinvolti anche i vertici dei clan Piromalli e Molè di Gioia Tauro, alleati ai Mancuso nell’eliminazione dei due elementi del clan Chindamo contrapposti al clan dei Cutellè di Laureana appoggiato dai Piromalli-Molè-Mancuso. Pasquale Pititto si trova su una sedia a rotelle dopo aver subito negli anni ’90 un tentato omicidio ad opera del contrapposto clan Galati di San Giovanni di Mileto.