venerdì,Luglio 25 2025

Vibo ha bisogno di occhi che sappiano vedere anche la bellezza che resiste, non solo il degrado

Una città è corpo vivo di relazioni. Ogni saluto tra vicini è un atto di resistenza alla solitudine. Ogni sorriso scambiato tra sconosciuti è un ponte invisibile sopra il disincanto. Ogni caffè condiviso in un bar del centro è un altare profano della comunione quotidiana

Vibo ha bisogno di occhi che sappiano vedere anche la bellezza che resiste, non solo il degrado
Una veduta di Vibo Valentia

C’è una città che vive e non vive, che respira a intermittenza, che ha i lineamenti scolpiti dalla storia, eppure vaga smarrita, come chi ha dimenticato il proprio nome.
Una città bella, sì – bellissima –, come una donna dai lineamenti antichi, seduta sul ciglio del tempo, ma con lo sguardo perso, come se cercasse qualcuno che la riconosca.
Quella città è Vibo Valentia.
Non basta vederla, bisogna saperla guardare. Non con gli occhi, ma con ciò che li muove: con l’anima.
Vibo non è solo pietra, cemento e asfalto.
Non è solo il rumore dei motori che salgono da Viale della Pace, o il profilo della rupe che si specchia nei sogni del Tirreno.

È un paesaggio interiore, una geografia del cuore.
Una città non è fatta di case, ma di voci. Non è fatta di strade, ma di passi. Non è fatta di piazze, ma di attese, di incontri, di sguardi incrociati sotto un balcone in fiore.

E allora, perché dire che Vibo è “senza anima”?
Forse perché l’anima non si vende al mercato, non si asfalta, non si inaugura con le forbici e i nastri.
L’anima si ascolta.
Si accarezza.
Si coltiva, come un giardino nascosto tra i vicoli.

Guardare la città con gli occhi dell’anima significa entrare in punta di piedi nei suoi silenzi.
Percepire il fruscio delle storie che abitano i muri scrostati, le panchine vuote, i portoni socchiusi.
Significa capire che ogni anziano che cammina lento, sotto il sole di Piazza Municipio, è una biblioteca vivente, e ogni bambino che gioca nel cortile di una scuola è un futuro in divenire.
In questa visione poetica e radicale, Vibo Valentia non è più un luogo da attraversare, ma da abitare.
Non da consumare, ma da custodire.
Non da lamentare, ma da ascoltare.

È un corpo vivo di relazioniuna trama invisibile di legami che s’intrecciano come fili d’oro in un tessuto dimenticato.
Ogni saluto tra vicini è un atto di resistenza alla solitudine.
Ogni sorriso scambiato tra sconosciuti è un ponte invisibile sopra il disincanto.
Ogni caffè condiviso in un bar del centro è un altare profano della comunione quotidiana.

Le piazze non sono spazi vuoti, ma cuori di pietra che battono al ritmo della gente.
I mercati non sono solo bancarelle, ma danze di manitrame di vociprofumi di memoria.
Ogni panchina in un parco è un invito a restare, a rallentare, a vivere con più presenza.
E poi ci sono le memorie, i segreti custoditi nei nomi delle vie, nei muri dove il tempo ha lasciato graffi e carezze.

Guardare la città con gli occhi dell’anima significa sentire le voci dei pescatori che tornavano a piedi dalla Marina, le nenie delle nonne al tramonto, le storie sussurrate all’ombra del Castello, i baci rubati sulle scale della Chiesa degli Angeli, i pensieri condivisi sotto il porticato del Valentianum.
Guardare con gli occhi dell’anima significa ascoltare la voce sospesa – e in attesa – della città.
Ogni pietra racconta. Ogni passo risuona. Ogni silenzio pesa.
Vibo è un libro scritto col sangue e con la luce.
Un libro che abbiamo smesso di leggere perché distratti dal rumore, dalla fretta, dalla dimenticanza.

Ma l’anima della città non muore.
Può dormire, può tremare, può nascondersi dietro le crepe.
Ma è lì.
Come il sole dietro le nuvole.
Come una voce che attende solo di essere chiamata per nome.

Riconoscere questa anima significa riscoprire l’empatia nei gestila solidarietà nei dettaglil’umanità nei margini.

È nelle mani che aiutano, nei passi che accompagnano, negli occhi che non giudicano.
È nelle storie degli ultimi, nei sorrisi dei bambini migranti, nei silenzi dei padri disoccupati.
È nell’accoglienza delle diversità, nelle parole dette in dialetti stranieri, nei piatti condivisi tra lingue diverse.
È nel mosaico della città umana, che non ha confini ma battiti.

Vibo ha bisogno di essere amata non per quello che appare, ma per quello che può diventare se amata davvero.
Ha bisogno di cittadini che non si sentano turisti del proprio presente.
Ha bisogno di occhi che sappiano vedere non solo il degrado, ma la bellezza che resiste, non solo le mancanze, ma le possibilità.

Non si può cambiare una città se prima non si cambia lo sguardo.
Non si può amare una città se non si accetta di ascoltare la voce sommessa della sua anima.

Ogni volta che un cittadino si ferma a guardare un tramonto dalla terrazza del Parco delle Rimembranze, ogni volta che un ragazzo racconta a un altro la storia del suo quartiere, ogni volta che una donna accarezza le pietre antiche del Duomo, come se accarezzasse la fronte della madre, ogni volta che accade questo, la città si risveglia un po’ di più.

Guardare Vibo con gli occhi dell’anima è fare tesoro del passato, abbracciare il presente come un dono fragile e potente, e tendere lo sguardo verso il futuro non come un’utopia, ma come una responsabilità condivisa.

È piantare semi di gentilezza nella terra dell’indifferenza.
È credere che l’anima di una città sia la somma delle anime che la abitano.

E allora sì, forse Vibo è bella ma “senza anima” solo perché noi per primi abbiamo smesso di cercarla.
Ma l’anima, come le lucciole, torna a brillare quando si spegne il rumore.
Serve solo un po’ di buio, un po’ di ascolto, e uno sguardo capace di vedere ciò che non si vede.

Allora Vibo tornerà a parlarti.
Non con la voce delle sue strade, ma con quella più profonda delle sue relazioni.
E ti dirà: “Io sono te. Tu sei me. Non lasciarmi andare.”
*scrittore e poeta

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