Sono stati dichiarati “inammissibili” dalla sesta sezione penale della Cassazione i ricorsi dei cugini Francesco La Rosa, 44 anni, e Pasquale La Rosa, 53 anni, ritenuti ai vertici dell’omonimo clan di Tropea. La sentenza definitiva che aveva sancito l’esistenza del clan La Rosa, suddiviso in una parte della “famiglia” che controlla (Francesco e Salvatore La Rosa) la zona della Marina, mentre Antonio, Pasquale e Francesco (cl. ’71, alias “U Bimbu”), fratelli fra loro e cugini dei primi due, controllano Tropea-paese, era arrivata il 27 aprile dello scorso anno. Avverso tale verdetto della Cassazione si erano registrati due nuovi ricorsi da parte di Pasquale La Rosa e Francesco La Rosa, con i quali si lamentavano degli errori di fatto in quanto – a loro dire – la Corte d’Appello di Catanzaro nel riformare il 30 giugno 2015 le assoluzioni di primo grado aveva ribaltato il verdetto condannando i due imputati per il reato di associazione mafiosa. In particolare, Pasquale e Francesco La Rosa – condannati a 5 anni di reclusione ciascuno – lamentavano che in Appello erano stati condannati facendo «espresso richiamo a prove orali per addivenire alla dimostrazione dell’ultrattività dell’associazione La Rosa operante a Tropea, con composizione differente rispetto a quella già indicata nel processo Odissea».
I La Rosa della città e della Marina: un unico clan. La Cassazione per la prima volta ha riconosciuto l’esistenza di un unico clan La Rosa, suddiviso poi in due “famiglie”: i La Rosa della città guidati dai fratelli Antonio e Francesco La Rosa, alias “U Bimbu”, e quelli della Marina guidati da Salvatore La Rosa e Francesco La Rosa (cl. ’74). Dopo gli arresti dell’operazione “Odissea” del settembre 2006, attraverso una microspia posta sull’auto di La Rosa Francesco (cl.’74) gli inquirenti sono riusciti a ricostruire le dinamiche che hanno portato alla riorganizzazione della cosca ed all’estensione del gruppo tramite la “saldatura operativa tra i discendenti degli anziani fratelli Domenico La Rosa (capostipite dei cd. “La Rosa della città”) e Carmine La Rosa (capostipite dei cd. “La Rosa della marina”), tutti prevalentemente impegnati in imprese operanti nel settore del movimento terra e dunque in posizione di potenziale conflittualità operativa”. Ed infatti – fanno notare i giudici in sentenza – la sinergia tra i due rami della famiglia in precedenza era risultata “impossibile, sia per rivalità individuali, sia per il senso di pretesa “superiorità” nutrito dai La Rosa della città”, ritenuti gruppo “predominante e maggiormente aggressivo” rispetto a quelli della marina. Diversi gli “affari” del clan a Tropea. I giudici hanno quindi esaminato numerose vicende che hanno visto l’interesse del clan mafioso dei La Rosa: la bonifica dell’area parcheggio di Tropea, la guardiania del cantiere al Porto, i lavori edili svolti da tale Macrì Giuseppe, i lavori a Drapia e Parghelia, i lavori dell’impresa Restuccia, i lavori al cimitero, i lavori in località Carmine, i lavori della ditta Romano e i trasporti dei turisti alle Eolie. Esaminate poi le risultanze attinenti alle
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