martedì,Maggio 20 2025

Parla il comandante dei carabinieri di Vibo Luca Toti: «In atto una pax mafiosa, nella zona grigia si annida la nuova ‘ndrangheta» – VIDEO

«Ho deciso di indossare la divisa quando uccisero Falcone e Borsellino». E ancora: «Bisogna avere il coraggio di denunciare. E nei sindaci ancora non ne vedo abbastanza». Il momento più bello: «Quando uno studente di Limbadi proveniente da una famiglia mafiosa mi ha detto: "Ho visto tante cose storte, voglio diventare carabiniere"

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Il comandante Luca Toti

«Avevo 16 anni quando decisi di diventare carabiniere. Era il 1992, l’anno in cui furono uccisi Falcone e Borsellino. E mi dissi: devo fare qualcosa». C’è una motivazione molto forte alla base della carriera del comandante provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia, Luca Toti. Una motivazione che affonda le sue radici nello sconcerto di un Paese che vide la mafia superare ogni limite concepibile. «Per me fu come ricevere un pugno in mezzo al petto – aggiunge -. Così decisi di arruolarmi».
Abruzzese, 48 anni, da circa due anni e mezzo Toti è a Vibo, dopo un passato a Bologna, Napoli e Torre Annunziata. Ed è già tempo di bilanci.
«Ho cercato di creare la massima sinergia tra i reparti. Disponiamo di 32 stazioni dei carabinieri che sono la sentinella sul territorio dell’Arma, un presidio di legalità ma anche un modello di accoglienza per il cittadino, soprattutto per chi non ha a chi rivolgersi quando è in difficoltà. Oltre ai 450 carabinieri del comando provinciale possiamo contare su 400 carabinieri dello Squadrone eliportato Cacciatori Calabria, del Nas, del Nucleo ispettorato del lavoro. E poi giochiamo in squadra con le altre istituzioni, con la Polizia di Stato, con la Prefettura, con la Magistratura».

Qual è stato il momento più gratificante di questi due anni e mezzo?
«Momenti gratificanti ce ne sono stati tanti, ma non mi riferisco semplicemente ai risultati operativi, ma anche alle piccole soddisfazioni personali, che poi sono quelle che davvero gratificano quelli che come me fanno questo mestiere. Ricordo in particolare un ragazzo di Limbadi, di una scuola media, che dopo un incontro sulla legalità è venuto a chiedermi come poteva arruolarsi nei carabinieri e quindi ha cominciato a farmi molte domande. Alla fine gli ho chiesto perché volesse farlo. E lui – avrà avuto 13 o 14 anni, forse anche più piccolo – mi disse: “Ho visto tante cose storte nella mia vita”. La cosa mi colpì. Ho poi chiesto all’insegnante chi fosse questo ragazzo e mi disse che fa parte di una famiglia mafiosa. Il suo desiderio di diventare carabiniere è per me un segnale molto importante».

E invece il momento più brutto?
«In questo mestiere ce ne sono tanti. Ad esempio, quando non riusciamo a dare una risposta a tutti quei cittadini che vengono in caserma perché vittime di un reato, vittime di un sopruso. Ci si sente frustrati, soprattutto quando la vittima ha subito uno di quei reati più odiosi, come le truffe agli anziani, alle persone vulnerabili. Oppure quando si tratta di violenza contro le donne. In questi casi, anche se non perdiamo mai di vista il nostro obiettivo, la prima cosa che facciamo è cercare di rassicurare queste persone, far capire loro che dietro una divisa c’è comunque un uomo o una donna pronti ad ascoltare».

Ha accennato alle truffe agli anziani, un fenomeno che sta dilagando…
«Un problema che si sta diffondendo in tutta la provincia vibonese, ma anche nel resto della Calabria. Per contrastare questi reati ci muoviamo in due direzioni. Innanzitutto siamo impegnati in attività di prevenzione insieme alle parrocchie, le associazioni di categoria, i centri di ritrovo per gli anziani, per far capire alle potenziali vittime come bisogna difendersi da questi reati. Poi c’è l’azione repressiva. Recentemente abbiamo assicurato alla giustizia alcuni soggetti che dal Napoletano ero arrivati a Vibo Marina riuscendo a raggirare una donna anziana. Erano riusciti a impossessarsi anche della fede del marito defunto. Si tratta di reati veramente abietti che cerchiamo di contrastare con grande attenzione».

Negli ultimi tempi nel Vibonese c’è stata una recrudescenza di atti intimidatori. Però questa volta sembra che la città abbia reagito con un’autentica ondata di solidarietà. Lei ha percepito questo cambiamento?
«C’è una bella frase di Sant’Agostino che dice: la speranza ha due figli, l’indignazione e il coraggio. L’indignazione è importante ma da sola non basta, ci vuole il coraggio di ribellarsi. Sto notando che nei 50 comuni della provincia sta venendo fuori questo senso di indignazione, soprattutto nei confronti della ‘ndrangheta, che rimane la principale criticità del Vibonese, la principale minaccia. Quello che ancora manca, però, è il coraggio di denunciare. Quindi c’è bisogno che la parte sana, gli imprenditori, i commercianti, denuncino, perché le forze dell’ordine da sole non possono estirpare definitivamente il fenomeno. Bisogna ribellarsi».

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Le inchieste degli ultimi anni, a cominciare da Rinascita Scott, hanno disarticolato quella che potremmo definire in un certo senso la vecchia ‘ndrangheta. Come è cambiata la criminalità organizzata vibonese in questi anni? Qual è il reale impatto di queste inchieste?
«La criminalità organizzata vibonese ha una capacità di autorigenerarsi impressionante. Le indagini che abbiamo condotto soprattutto con la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ci hanno permesso di colpire le strutture di comando e controllo, l’ala militare. Ma la ‘ndrangheta resta una mafia molto potente, che esercita ancora un forte controllo del territorio. E sta evolvendo nel settore dell’economia, è una mafia che guarda alle nuove tecnologie, alle criptovalute. Per questo le forze di polizia devono tenere il passo, adeguarsi, con l’addestramento, facendo sinergia tra di noi, ma anche guardando all’estero. Ora sostanzialmente si sta vivendo in un periodo, per così dire, di pax mafiosa, ma non bisogna abbassare la guardia, anzi bisogna alzare il tiro, perché quando la criminalità organizzata non fa omicidi significa che magari gli equilibri sono stati già trovati, che gli assetti sono stati definiti. E soprattutto bisogna recidere i collegamenti con i cosiddetti colletti bianchi, perché le mafie e la ‘ndrangheta in particolare hanno la necessità di creare sinergie con il mondo della politica, delle istituzioni, con il mondo dell’economia legale, proprio per infiltrarsi ed inquinarla. Ora bisogna puntare a quella zona grigia».

Lei richiama la necessità di avere coraggio, perché la sola indignazione non basta. Ma c’è questo coraggio nelle pubbliche amministrazioni, tra i sindaci?
«Nei 50 comuni vibonesi alcuni sindaci stanno cercando di farsi avanti, di collaborare con le istituzioni, quindi si crea questo rapporto sinergico con le forze dell’ordine e, in particolare, con la Prefettura. Ma secondo me ancora non ci siamo. Quello che mi aspetto dai sindaci, dai politici e, ripeto, dagli imprenditori, è che ci aiutino davvero a imprimere una svolta. Quindi, per rispondere alla sua domanda, non sono ancora soddisfatto. Non bastano le parole di circostanza, adesso servono i fatti».

Recentemente è stata ricordata Maria Chindamo a 9 anni dalla sua scomparsa, dal suo assassinio. Questi simboli sono importanti, ma non si rischia che la retorica celebrativa annacqui il vero messaggio?
«Non credo, soprattutto con riferimento alla vicenda di Maria Chindamo, che esprime una forza straordinaria. Perché non è solo un omicidio di mafia. In questo caso è stata fatta sparire una giovane donna, una mamma che voleva emanciparsi. Ecco perché è importante che ogni anno Maria Chindamo venga ricordata, per dare voce a tutte quelle persone che voce non ne hanno, a tutte quelle donne che non sono solo vittime di mafia ma anche vittime di violenza, reati abbietti che spesso non si ha il coraggio di denunciare, soprattutto in contesti dove c’è forse più vicinanza ai carnefici che alle vittime».

Lei spesso va nelle scuole, quindi ha un contatto costante con gli studenti, con i ragazzi e le ragazze vibonesi. Percepisce in loro una concreta tensione al cambiamento?
«La speranza c’è e secondo me dobbiamo continuare ad alimentarla andando nelle scuole, dove vedo giovani curiosi, che hanno voglia di capire cos’è veramente la ‘ndrangheta che magari percepiscono nel loro quotidiano. Però questi ragazzi hanno bisogno di avere dei modelli, persone che hanno fatto delle scelte come la mia, quella di fare il carabiniere».

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