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La pioggia e poi l’inferno: trent’anni fa a Sant’Onofrio la strage dell’Epifania

Due morti, dieci feriti. Una mattanza che ricostruiamo grazie ai racconti dell’epoca e agli atti giudiziari. Il massacro della Befana doveva annientare i Bonavota e invece ne assicurò l’ascesa

La pioggia e poi l’inferno: trent’anni fa a Sant’Onofrio la strage dell’Epifania
Il titolo dell'Unità del 7 gennaio 1991 dedicato alla strage dell'Epifania

Due morti: vittime innocenti. Dieci feriti. Il terrore di «Un paese della Calabria come Chicago», titolava l’Unità. Scrisse l’inviato Aldo Varano: «Ore 11 e 12 minuti della Befana, nella piazzetta di Sant’Onofrio piomba un’Alfa 33. È finito di piovere da poco e nessuno immagina che da lì a poco si scatenerà l’inferno». Pagine ingiallite di vecchi giornali, di atti giudiziari che raccontano una tra le più cruente pagine di storia criminale in una provincia nella quale, a quel tempo, a farsi la guerra erano i «clan dei poveri». Uno tra questi, quello che all’Epifania del 1991 doveva essere decapitato, però sopravvisse, e diventò tra i più potenti, tra i più ricchi e temuti: i Bonavota. Sono trascorsi trent’anni da allora.

Titolo e sommario dalla prima dell’Unità del 7 gennaio 1991

Forse nessuno mai come Varano raccontò con tanta lucidità giornalistica e potenza narrativa la crudeltà di quel giorno: «Nessuno immagina che da lì a poco si scatenerà l’Inferno. Nessuno, tranne due soldati di una delle cosche che si combattono. I due sono un po’ in disparte. Ma allo stridio delle gomme corrono a più non posso. Quattro salti e sono già davanti al bar dove s’attardano le persone uscite dal caffè che s’affaccia su piazza Umberto I, il cuore del paese di tremila abitanti a sud di Vibo Valentia. I fuggitivi si mischiano a tutti gli altri per spezzare l’azione del commando arrivato fin lì con l’ordine di ucciderli. In piazza, tra l’altro, ci sono sia fiancheggiatori e simpatizzanti sia di Vincenzo Bonavota che dei Petrolo. Ma i killer incaricati dell’esecuzione non si lasciano condizionare. Scesi dall’auto, i volti travisati dalle calze, scaraventano sulla piccola folla un uragano di piombo. Una manciata di interminabili secondi, giusto il tempo per qualche sventagliata di mitra e per scaricare le pistole, tra gli urli di paura ed il fuggi fuggi cieco del terrore. Poi la macchina riparte sgommando».

A terra morti ammazzati e feriti. Onofrio Addesi e Francesco Augurusa, 39 e 45 anni, muoiono all’istante. Due persone oneste, perbene, che nulla c’entravano con la guerra di mafia iniziata tra i Bonavota ed i Petrolo-Matina-Bartolotta per il controllo del territorio. Fu una escalation. Un morto dietro l’altro, quattro omicidi in sette mesi, l’ultimo il 3 gennaio precedente il «massacro della Befana»: Domenico Moscato, considerato vicino ai Petrolo. All’Epifania la risposta, feroce e cieca. Ancora, il racconto dell’Unità: «Morti e feriti per caso, colpiti perché si son trovati nel mucchio in cui hanno cercato riparo, restando illese, le vittime predestinate. Gli assassini erano almeno tre, forse quattro, ed hanno mosso all’assalto con una 7.65 ed una potentissima 375 Magnum; ma per la strage è stato usato anche un mitra, quasi sicuramente un micidiale kalashinkov».

Due morti, dieci feriti. Una mattanza che ricostruiamo grazie ai racconti dell’epoca e agli atti giudiziari. Il massacro della Befana doveva annientare i Bonavota e invece ne assicurò l’ascesa
La piazza di Sant’Onofrio, teatro della strage dell’Epifania

Una mattanza a cui, però, grazie ad un disperato inseguimento, i carabinieri diedero subito una risposta. L’Alfa 33 fu agganciata da una gazzella, raggiunta e messa in trappola vicino Pizzo. A bordo però c’era un solo uomo: Rosario Michienzi, allora 31 anni, armato. Arrestato, vuoterà subito il sacco: indicò il mandante, l’esecutore materiale, il movente. Tra gli arrestati Gerardo D’Urzo: condannato all’ergastolo, divenne anch’egli collaboratore di giustizia e fu protagonista di una sincera conversione spirituale; si spense l’11 giugno del 2014. I processi accerteranno l’esistenza di due cosche contrapposte. Una quella dei Matina-Petrolo-Bartolotta fu seppellita dagli ergastoli. Rimase padrona di Sant’Onofrio quella dei Bonavota.

Il defunto Vincenzo Bonavota

Capostipite – secondo i rapporti di polizia – fu Antonino Bonavota. Erano i tempi di una ‘ndrangheta rurale, che sopravviveva tra abigeati, pascoli abusivi e soppressate. Nel 1950, però, nacque il primo cugino di Antonino, ovvero Vincenzo Bonavota e fu lui – racconta la letteratura giudiziaria – a cambiare il corso della storia. A vent’anni emigrò in Canada, salvo poi fare subito ritorno al paese d’origine, dove tra una denuncia e l’altra, per reati minori, acquisì sempre maggiore peso in un territorio nel quale s’era già affermato lo strapotere del clan Mancuso di Limbadi i quali, muovendo le pedine come se la geografia mafiosa fosse una scacchiera, ordirono faide e regolamenti di conti, divisero ed imperarono. Il 3 aprile del 1990 divenne proprio Vincenzo Bonavota il bersaglio di un attentato fallito, ordito nelle trame del conflitto armato che condusse, nove mesi dopo, alla strage dell’Epifania. La rappresaglia fu devastante e, nel 1992, vennero uccisi Vincenzo Petrolo e Fedele Cugliari. Per il cartello contrapposto fu la fine. In quegli anni, appena adolescente, s’affermò sulla scena criminale il primogenito di Vincenzo Bonavota, Pasquale: il carisma di un capomafia già da minorenne, che maneggiava armi, sapeva sparare e sfidava la morte. Quando il padre spirò, a causa di una malattia, fu lui, assieme al fratello più giovane Domenico, capo dell’ala militare, a prendere in mano la famiglia. Un clan oggi tra i più ricchi, potenti e temuti della ‘ndrangheta, ma in ginocchio dopo le operazioni Conquista e Rinascita Scott.

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