C’è una condizione nell’originario accordo bonario di cessione del terreno edificatorio “particella n. 83, foglio di mappa n.8 dell’estensione di 2146 metri quadrati” sottoscritto negli anni ’90 del secolo scorso dal Comune di Stefanaconi con i proprietari dell’area in questione, situata in prossimità della centralissima piazza della Vittoria e poi destinata a diventare villa comunale.
Quella condizione recita testualmente che si accetti che «sul pilastro dell’opera che si andrà a realizzare, a cura del Rubino (proprietario del terreno, ndr) e a sue spese, venga apposta la seguente scritta “Villa Elena”».

Una condicio sine qua non a tutti gli effetti, dunque, in quell’atto ormai acquisito da circa 30 anni agli archivi comunali che diede origine a quello che nel tempo divenne un luogo di socialità, incontro, manifestazioni culturali, concerti, dibattiti, presentazioni, persino sagre e campi estivi. Insomma, un cuore pulsante per la comunità grazie a spazi ben organizzati attorno ad un anfiteatro da 300 posti, gazebi e gallerie, un forno pubblico, giochi per bambini e, naturalmente, alberi, siepi e vialetti, panchine, lampioni e via elencando. Un bene pubblico, un patrimonio collettivo che tutte le Amministrazioni comunali hanno provato, chi riuscendoci di più chi di meno, ad arricchire e valorizzare. Nessuna però ha mai pensato di cambiarne la denominazione.
Una variazione, a dire il vero, avvenne intorno al 2010, allorquando per un banale refuso comparve nel titolo di un articolo di stampa la denominazione “Villa Regina Elena”. Fu al quel punto che la famiglia, molto attenta alla tutela della memoria storica, pretese e ottenne di aggiungere il cognome “Bellantoni” alla denominazione sancita da contratto, con tanto di aggiornamento della targa che fino a quel momento recitava “Villa Elena – Giardino della Cultura”.
Anche per questo, adesso, suscita stupore l’iniziativa della commissione straordinaria alla guida dell’Ente locale che vorrebbe invece optare, previa autorizzazione della Prefettura, per “Giardino della Legalità – Rosario Livatino”. Contro tale ipotesi si schiera anche Domenico Cugliari, vicesindaco all’epoca dell’acquisizione dell’area.
«La legalità non si afferma modificando storia ed identità – spiega l’ex amministratore -. La decisione di cambiare il nome di questo luogo storico vorrebbe rappresentare un segno di rinascita e affermazione di legalità. Ma è davvero questo il modo migliore per costruire un cambiamento?
La decisione, presa senza un confronto profondo con la comunità, rischia di apparire come una scelta frettolosa e divisiva. Non si può affermare la legalità cancellando pezzi di memoria collettiva. La storia di un luogo non si riscrive eliminando ciò che già esiste, soprattutto quando si tratta di figure che, nel bene o nel male, hanno fatto parte dell’identità del territorio. I commissari prefettizi, chiamati a ripristinare trasparenza e ordine in un comune, hanno il compito delicato di ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini. La legalità si afferma con azioni concrete, con il coinvolgimento della comunità, con il rispetto per ciò che è stato e con una visione chiara per il futuro».


Per Cugliari: «Intitolare una piazza o una struttura pubblica a una figura come Rosario Livatino è senza dubbio un gesto importante. Ma farlo cancellando un’altra dedica rischia di essere percepito come un colpo alla memoria locale, un modo per affermare il cambiamento senza costruire davvero qualcosa di nuovo. La legalità non è una questione di targhe o nomi – argomenta Cugliari -. È un processo che richiede trasparenza, partecipazione e rispetto per la complessità della storia di un luogo.

I commissari prefettizi, più di chiunque altro, dovrebbero esserne consapevoli. Se si vuole davvero onorare la memoria di Livatino, sarebbe meglio farlo in un modo che aggiunga valore al territorio, senza pregiudizi verso chi ha fatto parte della sua storia. Perché il cambiamento vero non si costruisce cancellando – conclude Cugliari -, ma includendo e costruendo un futuro che sappia rispettare il passato».