venerdì,Aprile 26 2024

La prima Shoah della storia: ne fu vittima il popolo meridionale

Fu una delle pagine più buie dell’Italia unita ma la storiografia dei vincitori l’ha tenuta a lungo nascosta per non scalfire l’immagine dell’epopea risorgimentale. Ma quando si ha paura della verità non ci si può ritenere liberi.

La prima Shoah della storia: ne fu vittima il popolo meridionale

Il 27 gennaio si celebra il “Giorno della Memoria”, dedicato al ricordo della Shoah. Bisogna tenere viva la memoria affinché il passato non si ripeta, come è giusto far riemergere vicende finora ignorate.

Recentemente, grazie al lavoro di ricercatori desiderosi di far conoscere vicende sepolte sotto la densa polvere del tempo, è venuta fuori una Shoah ante litteram, avvenuta negli anni che seguirono l’Unità d’Italia. La pagina più nera della storia del Paese: 5.212 condanne a morte nel Meridione, migliaia di persone deportate nei lager piemontesi di Fenestrelle e San Maurizio Canavese, i cadaveri sciolti nella calce viva (non erano ancora stati ideati i forni crematori). Estrapolando dagli archivi documenti inequivocabili, è venuta fuori un’altra storia, diversa, sorprendente: la prima pulizia etnica dell’età moderna si ebbe proprio in Italia.

Il Risorgimento è stato sempre narrato come ha voluto la parte vincitrice, ma c’è un altro Risorgimento fatto di sangue, di fango, dolore, ferocia. Le vicende della nostra storia post-unitaria sono stati artatamente occultati, cancellati per non intaccare l’immagine edulcorata del Risorgimento. Sono in pochi, probabilmente, a conoscere la triste sorte riservata a migliaia di meridionali rinchiusi nel campi di concentramento del nord Italia dopo il dissolvimento dello stato borbonico.

Fin dai primi mesi del 1861 il fenomeno del brigantaggio assunse dimensioni dilaganti e costrinse i Piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati al Sud dagli iniziali 22.000 a 120.000 nel 1863, quasi la metà dell’intero esercito. I militari duo siciliani, a cui si aggiunsero i “briganti” o presunti tali catturati nel corso dei vari rastrellamenti, furono vittime di una deportazione in grande stile e tanti morirono tra gli stenti, le privazioni, i maltrattamenti, le esecuzioni sommarie nei lager piemontesi che sicuramente assai poco diversi dovevano essere da quelli approntati, meno di un secolo dopo, dai nazisti. In quei luoghi, oltre 40.000 persone furono fatte morire deliberatamente. Erano stretti insieme assassini e sacerdoti, giovani e vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce in posti dove la temperatura era quasi sempre sotto lo zero. Pochi riuscirono a sopravvivere.

I corpi venivano disciolti nella calce viva contenuta in una grande vasca. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando nella fortezza di Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”. Ricorda molto la scritta all’ingresso di Auschwitz: “Il lavoro rende liberi”. Non mancò neanche un tentativo di “soluzione finale”: furono presi contatti prima con il governo portoghese per la concessione di un’isola nel bel mezzo dell’Atlantico dove depositare i prigionieri meridionali, togliendoseli così definitivamente di torno; poi con la repubblica argentina per costruire uno stabilimento penale in Patagonia, terra desertica e inospitale. Ma sia il Portogallo che l’Argentina respinsero il singolare quanto infame disegno…

Vicende completamente rimosse dalla storiografia ufficiale al fine di non scalfire l’immagine dell’epopea risorgimentale. Ma la forza di una democrazia si misura anche dalla capacità di non negare la verità storica, insabbiando episodi che sarebbero imbarazzanti. Una storiografia di parte si è impegnata, per tanti, lunghissimi decenni, a tenere nascosta una verità scomoda, ma quando si ha paura della verità non ci si può ritenere liberi.

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