Quando ci occupiamo di storia, è sempre utile distinguere ciò che è documentato da ciò che, col tempo, abbiamo semplicemente imparato a ripetere. Il caso di Pizzo è emblematico di come storielle ripetute nel possano diventare storia vera, con tanto di sigillo bibliografico impresso dai suoi storici.

Ne ho già raccontato alcune famose, come Cicerone ed il suo seggiolino o il monumento civico riconvertito a celebrare un terremoto, la base in marmo di una statua che diventa prova del passaggio del diavolo in chiesa... e mille altre ancora. Particolare rilievo però assume il racconto della presunta origine dalla città greca di Napitia, tanto da far diventare Pizzo un esempio istruttivo, quasi un piccolo laboratorio di come nascono, resistono e si alimentano i miti identitari.

Per secoli si è creduto e detto che l’attuale Pizzo discendesse da Napitia, una nobile polis della Magna Grecia. Mito talmente ostentato da alimentare brand di villaggi turistici, aziende immobiliari, persino l'etnico, il nome stesso i suoi abitanti, che oscilla ancora oggi tra pizzitani e napitini.

Ma la ricerca storica ci invita a guardare con attenzione alle fonti. E quello che emerge è molto più semplice, ma anche più rigoroso: Napitia in realtà non era una città. Era un nome di territorio, un’area geografica probabilmente collocata tra l’Angitola e il golfo lametino.

Per secoli città contesa tra Pizzo ed Amantea oggi sappiamo che in realtà quella città non esistette. Non troviamo una sola fonte greca o romana che indichi Napitia come una polis, come villaggio urbanizzato. Non esistono scavi, reperti o tracce urbane antiche nell’area dell’odierna Pizzo o nei suoi dintorni. Le città greche della zona erano altre: Hipponion e Terina, ben attestate e riconoscibili.

Napitia, dunque, non fu una città, ma un'area territoriale - oggi la chiameremmo Area Vasta - l'unica fonte certa è quella di Strabone, parla dei Napetini (Ναπητῖνοι) come del popolo che viveva in quell'area e non di una città urbanisticamente strutturata.

Una verità storica semplice, che contrasta con una tradizione moderna molto più romanzata. Anche la figura del mitico Nepeto, celebrato come fondatore di Napitia, si rivela essere un prodotto di fantasia tardo-antica: un tipico eroe eponimo, creato per spiegare un nome, non per raccontare un fatto.

Un mito, insomma. Suggestivo, ma non storico. Tanto suggestivo che persino un sindaco della città ne ha scritto un romanzo. La ricostruzione del Settecento – soprattutto con l’opera di Ilario Tranquillo – trasformò questa regione in una polis, e Nepeto in un fondatore. Era una fase culturale in cui molte comunità cercavano origini greche per nobilitare la propria immagine.

Una tendenza comprensibile… sebbene spesso molto creativa. Del resto, quello della storia addomesticata è prassi ormai istituzionale: così come si continua a ritenere gli abitanti di Pizzo figli dell'antica Napitia, si continua ad utilizzare il titolo di “città” nella sua comunicazione istituzionale e nell’immaginario collettivo, nonostante, dal punto di vista giuridico e storico-amministrativo, il titolo di città fu abolito nel 1860, insieme ai privilegi concessi durante il periodo borbonico per la partecipazione ad un regicidio.
Non è un dettaglio polemico: è semplicemente un fatto. Un esempio contemporaneo di come le tradizioni – quando fanno comodo, o quando risultano suggestive – tendano a sopravvivere ben oltre le norme che le hanno originate. Un po’ come con Napitia se ci pensiamo bene.

È qui che dobbiamo ribadire valore della chiarezza storica. Distinguere tra mito e realtà non impoverisce l’identità di un luogo. La rafforza. Sapere che Pizzo non discende da una polis greca non toglie nulla alla sua storia, anzi: ci permette di riconoscere la vera complessità del territorio, dalle fortificazioni aragonesi ai traffici medievali, dall’economia marinara ai paesaggi culturali che lo hanno reso unico. E finalmente valorizzarli, senza metterli a rischio costruendo la modernità.

La storia è affascinante proprio perché ci sorprende, ci corregge, ci obbliga – talvolta con garbo, talvolta con fermezza – a rivedere ciò che pensavamo di sapere. E proprio questo, in fondo, è il cuore del metodo scientifico: osservare, verificare, e aggiornare ciò che crediamo vero quando le evidenze lo richiedono.
storico vibonese*