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Di Spelonga di Arquata, borgo marchigiano alle falde del monte Vettore, di integro non c’è rimasto molto. Il paese, reso celebre dal film di Pietro Germi «Serafino» grazie ad un magistrale Adriano Celentano nei panni dell’omonimo pastore, è venuto giù il 24 agosto 2016 con un terremoto che ha lesionato case, chiesa, piccoli negozi, Municipio. 300 morti, 41mila sfollati, 131 paesi compromessi. Una delle più grandi tragedie italiane dell’ultimo trentennio. E se peggio ancora è andata agli altri paesi del Tronto – Pescara ed Amatrice, praticamente rase al suolo -, anche qui, dove pure la fisionomia del paese ancora si intravede, tra puntelli e cantieri, le cicatrici sono devastanti. Quello che il terremoto non ha scalfito ma anzi alimentato è il senso di appartenenza di una comunità che ogni tre anni si raduna per ricordare con orgoglio i 150 coscritti montanari chiamati da Venezia alla battaglia di Lepanto (in gran parte galeotti, ma tant’è…). È «La Festa Bella»: un mese di gare giochi, grigliate e gare di poesia estemporanea, tra navi sospese, e addobbi ispirati alla battaglia
Lepanto mon amour
Insomma, il 7 ottobre 1571, vittoria della flotta cristiana sulle forze ottomane nelle acque di Lepanto, è una delle date che l’immaginario occidentale non dimentica. L’episodio della guerra veneziana per Cipro, persa tra l’altro dalla Serenissima l’anno successivo, vide la Lega Santa dei regni cattolici unita sotto il vessillo di San Marco e dimostrò la fallibilità delle forze turche sino ad allora considerate invincibili. Ancora oggi, in ricordo della battaglia, dall’Adriatico al Tirreno, in luoghi lontani per latitudine e cultura si celebrano varianti diverse della stessa festa. Spelonga, certo, dove da 450 anni è conservato in Sant’Agata – chiesa appena restituita alla comunità – uno stendardo saraceno strappato al nemico: ma anche Tropea, dove la festa de ”I Tri da Cruci” del 3 maggio sopravvive con il suo compendio di fuochi, giganti e caricatumbule, tra devozione ed euforia, nutrite di un folklore sincretico, superstizioso e magico come i tamburi rituali ed il passo lento di Mata e Grifone.
Un passato condiviso
Tanti gli elementi comuni ai Tri da Cruce e alla Festa Bella: il saraceno, la barca allestita nella piccola piazza, il veliero sospeso tra le case e Sant’Agata, la chiesa che il 20 agosto ha ospitato il convegno “Conversazioni con la Storia – da Spelonga a Lepanto”, a cura dello storico piceno Dario Nanni, architetto nativo del borgo e tra i maggiori promotori della prima “Festa”.

Conversazioni con la storia
Le “Conversazioni” 2025 hanno riguardato anche le tradizioni calabresi: una collaborazione tra i Club Unesco di Tropea e di Ascoli Piceno ha portato i referenti dell’associazione calabrese a relazionare sulle tradizioni del borgo marinaro. Si è evidenziato sia la dinamica della festa che la contaminazione culturale, e come la cultura saracena, la vicinanza araba, abbia permeato molti aspetti della vita quotidiana calabrese: cibo, organizzazione sociale, dislocazione e consistenza degli agglomerati urbani, assetto idrogeografico, centri rurali, scienza medica. Il convegno apre la via ad una stagione di ricerca congiunta, d’archivio e sul campo, sulla scia del “Ponte tra i due mari” lanciato dal Club di Tropea nel 2023 e 2024, e delle diverse iniziative tra Marche, Umbria, Calabria, ad iniziare dalla convenzione siglata con il Club Unesco di Tolentino-Macerata nel marzo 2024 in materia di architettura vernacolare.
Alessandro Barbero e le ragioni di una presenza
Tornando alla Festa Bella, Tropea non è stata la sola presenza “forestiera” dell’edizione 2025: tra queste, anche lo storico Alessandro Barbero, presente in video grazie ad un contributo raccolto dall’architetto Nanni, ha spiegato le cause della presenza marchigiana a Lepanto, ed il motivo per il quale i coscritti montanari hanno giocato un ruolo così importante. La montagna, ha spiegato il divulgatore, è stata per secoli luogo di reclutamento, in quanto sicura dalle incursioni, poverissima, densamente popolata. Le famiglie regnanti “subappaltavano” ai signori locali il compito di arruolare quei maschi adulti disposti a rischiare tutto, in cambio di qualche denaro. Ed ecco come, anche da Speolonga sia partita la“squadriglia” che ha riportato in paese la bandiera ottomana.
L’eroe, l’eroina, le bandiere
Leggenda vuole che sia stata una donna, unitasi ai soldati cristiani in abiti maschili, a strappare al nemico il drappo in seta rossa con la mezzaluna e le stelle a cinque punte. Cercando quindi un raffronto con le più note e nobili vicende tropeane, possiamo affermare che se da un lato Gaspare Toraldo, il comandante tropeano che con le sue gesta ha dato il linfa alle celebrazioni calabresi, è passato alla storia (o alla leggenda, comunque diffusa) come il primo a piantare l’insegna di San Marco su una nave ottomana, la misteriosa eroina di Spelonga ha riportato il vessillo nemico ai piedi dei Sibillini. Vessillo che i combattenti, sulla via del ritorno, dovettero difendere con le armi persino dagli emissari pontifici, intenzionati a dirottarlo su Roma, e che oggi, in barba tanto al Sultano quanto al Papa, è ancora qui, a ricordare la caparbietà degli abitanti di un paese celebre anche per aver consegnato alla storia una schiera nutrita di galeotti, boscaioli, briganti: profilo perfetto per andare a rinforzare le fila della Lega Santa.
Un simbolo di rinascita
Nei giorni della festa, la bandiera saracena è riprodotta ovunque, dagli specchietti retrovisori dei trattori alle imposte delle case, segno di un orgoglio mai sopito. È l’equivalente delle nostre teste di Moro, prima che fossero gentrificate dalla produzione industriale a servizio del turismo di massa. Simboli che riemergono da un passato comune, da studiare e confrontare, tra archivi e leggende, per gli anni a venire, e di una rinascita che non deve tardare ulteriormente ad arrivare: anche grazie, si spera, alla visibilità che al paese potrà derivare dalla collaborazione con il Club Unesco di Tropea, una delle capitali italiane del turismo.

