giovedì,Marzo 28 2024

Cronache dell’“Affruntata”: un rito sempre uguale a se stesso eppure sempre diverso

“Gente assiepata lungo i marciapiedi e la piazzetta. Aperti sul corso i balconi e le finestre, anche le case vecchie, spopolate negli altri giorni, riaccolgono oggi i figli e i nipoti tra pareti antiche e prive di vita”. Tra sacro e profano, il rituale di Pasqua visto da un originale punto di vista

Cronache dell’“Affruntata”: un rito sempre uguale a se stesso eppure sempre diverso

E “Affruntata” è stata. Come ogni anno, a memoria di “muntalanisi” doc o vibonese d’adozione, si è svolto l’antico rituale. Che poi si sia andati a messa, ci si sia confessati, si abbia partecipato con animo contrito e pieno di pentimento ai riti pasquali è tutto un altro discorso. L’Affruntata è il rito dei riti e non la si può perdere, e chi è fuori rientra solo per questo, “atru ca’ parenti”.

Non facciamo il solito fervorino, neanche la morale, non è il luogo, non è il tempo, non siamo indicati, ma soprattutto non serve. Alla fine certi riti servono ai più, alla maggior parte della gente come evento spartiacque temporale, il momento per togliere dalla naftalina l’abito buono o sfoggiare quello nuovo, lucidare le scarpe migliori o mettere quelle nuove, indossare il vestito estivo e poco importa se ancora il tempo non lo permetta e poco importa ancora se certi colori, certi accostamenti cromatici, siano improponibili ed uccidano l’occhio.

Pasqua è quel tempo che per i bambini segna il conto alla rovescia per la fine della scuola, per i grandicelli gli esami in arrivo, per gli universitari la sessione della svolta. È quel tempo dedicato a stare tra parenti, allargandosi agli amici, preparare i piatti della tradizione per poter dire inoltre la solita rituale frase al proprio marito o alla moglie: “quest’anno è l’ultima volta dai tuoi”.

Il cielo ha retto, la cappa plumbea non si è aperta e le gocce, sentinelle di pioggia e tempesta sono scese invano. Nonostante qualche ombrello aperto, qualche cappuccio tirato sulla testa, pochi si sarebbero comunque mossi dal posto d’osservazione tanto faticosamente guadagnato. Pochi si sarebbero persi l’evento degli eventi.

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Una signora bassa di statura, sopraffatta dalla folla, grida indignata al cielo: “Però abbasciateli ‘sti telefonini che non si vedi nenti”. Diverse persone guardano in direzione della voce, la signora arrossisce. Qualche voce arriva anche contro gli ombrelli. Sento una signora dietro me, lanciarmi strali e “jestimi” in dialetto, faccio finta di nulla. Chiudo il mio ombrello ampio come quello della Formula uno, poi lo riapro. Mi sposto. Giro su me stesso e la guardo, mi guarda e borbotta qualche altro accidenti che non comprendo, abbassa lo sguardo. Anche il marito lo abbassa pieno di scorno, riprendo posizione non senza una passata veloce coll’altra mano sulle mie attrezzature di bordo onde rendere vane le “jestime” contro il sottoscritto. Chiudo l’ombrello. La signora si sposta, riapro ancora l’ombrello, ho vinto per abbandono all’ennesima ripresa, finisce il siparietto.

Gente assiepata lungo i marciapiedi e la piazzetta. Aperti sul corso i balconi e le finestre, anche le case vecchie, spopolate negli altri giorni, riaccolgono oggi i figli e i nipoti tra pareti antiche e prive di vita. Tutte aperte le case, tranne qualcuna chiusa, rimasta senza parenti o con eredi distratti da altro o intenti a preparare altrove il “pranzo dei pranzi”.

La continuità del rito si perpetua negli anni, ma il testimone non è passato tanto da chi trasportava a chi ora trasporta le statue, quanto da quei padri che prendono sulle spalle i propri figli e che a loro volta furono presi sulle spalle dai propri padri, e così via, fino a salire nel tempo. Ed allora ricchi e poveri, professionisti e artigiani, belli e brutti, istruiti e analfabeti, massoni e aspiranti tali, diventano tutti uguali, nel mentre svolazzano solleticate dal vento gonne di cotone che mostrano gambe sode e meno sode, spiccano scollature improponibili di seni tirati fino alle tonsille, rossetti da tangenziale su bianchi sorrisi e ponti di porcellana, brillano gioielli veri e “brillocchi” di bigiotteria su antiche dame strette in corsetti contenitivi, e giovani donne con i capelli “conzati” freschi di parrucchiera.

Uomini dai sempiterni occhiali da sole d’ordinanza, giacca color petrolio o color “cane che fugge”, cravatta fantasia altezza ombelicale, capello lucido per chi ancora ce l’ha o altrimenti riporti tipo sottotetto finlandese a sfidare le leggi della fisica e della statica cesellati nelle migliori gallerie del vento; risvolti alti fino al legamento crociato di tanta gioventù con poca ombra sul viso ma che tutto può permettersi, anche una tamarra sigaretta all’orecchio, con non più l’età per essere presi sulle spalle, ma con sufficiente vigore per avere un figlio da mettere sopra, per fargli guardare oltre, per fargli vedere meglio le tre statue che corrono e danzano un rito vecchio di secoli e carico di fede, speranza e sudore, prima della solita luculliana “spanzata” come se non vi fosse un domani. Come se fosse l’ultima Affruntata.

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