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A 17 anni tra i partigiani: la storia del vibonese Ferdinando Palmieri, uno degli ultimi testimoni della Resistenza

Partito da Pizzo alla volta di Roma, fuggì dopo le drammatiche giornate del rastrellamento tedesco degli ebrei e si unì ad un gruppo di combattenti. La vita in una grotta e l’incontro con Ferruccio Parri. Oggi è un lucido 97enne e vive a Bivona

A 17 anni tra i partigiani: la storia del vibonese Ferdinando Palmieri, uno degli ultimi testimoni della Resistenza
Ferdinando Palmieri

Ferdinando Palmieri, classe 1926, è originario di Pizzo ma abita a Bivona. Ha lavorato per molti anni come meccanico specializzato presso la cementeria di Vibo Marina ed è sempre stato un cittadino attivo, amante del proprio territorio e della sua storia. Poeta dell’amore – ultimo suo libro “Il Pentolone”, poesie, pensieri, ricordi e riflession i- dimostra di essere una persona dotata di saggezza e ancora custode di tanti ideali giovanili che non tramontano mai come la verità, la libertà, la pace «da difendere in ogni tempo e in ogni luogo»- afferma Ferdinando. I suoi 97 anni non hanno scalfito la lucidità mentale e ricorda ancora nitidamente la sua esperienza in un gruppo partigiano, ma ci tiene a precisare che il suo contributo è stato per la libertà e la liberazione della Patria, non è stato un partigiano combattente. [Continua in basso]

L’arrivo a Roma nei giorni del rastrellamento degli ebrei

Il rastrellamento nel ghetto di Roma

Nel 1943 Ferdinando, all’epoca diciassettenne, parte da Pizzo per raggiungere Roma e trovare due cari amici, Marco e Giulio, rispettivamente di 16 e 20 anni, conosciuti durante l’estate, che lo avevano invitato per ospitarlo nella loro casa. Era autunno, dopo l’armistizio dell’8 settembre l’Italia era divisa in due e la capitale era stata occupata dalle truppe tedesche. Il 16 ottobre inizia il rastrellamento nel ghetto di Roma, oltre mille ebrei furono deportati, solo 16 fecero ritorno dai campi di concentramento. «Non immaginavo – racconta Ferdinando – quello che di tragico avrei trovato quel giorno di ottobre all’arrivo in quella città. A Roma si respirava un clima di tensione e di paura dopo il rastrellamento da parte di nazisti e fascisti a caccia di ebrei e italiani antifascisti. Raggiunsi non senza difficoltà l’abitazione dei miei amici. Vi era molta ansia e sgomento, in tanti stavano fuggendo da Roma. Anche i due fratelli miei amici erano determinati ad andare via e mi chiesero se avessi voluto associarmi a loro».

Tra i partigiani

Ferdinando accetta di andare e, a quel punto, inizia la sua incredibile avventura. Dopo aver camminando a piedi per ore e ore nelle campagne laziali, un contadino indica ai tre ragazzi un rifugio. Lungo il percorso i tre amici, impauriti, vengono interrogati da un giovane che li conduce con lui. Si camminava in silenzio, a lungo e per strade impervie, finché arrivano ad un rifugio nascosto in una grotta. Dentro c’erano una decina di uomini e due donne. Viene loro dato da mangiare, non senza prima aver chiesto dettagliate spiegazioni sui motivi della loro fuga da Roma. Passano i giorni e i mesi , in cui i tre giovani imparano a maneggiare le armi. Giulio, l’amico più grande, partecipava alle sortite dei partigiani contro i tedeschi. «Io e Marco – ricorda Ferdinando – essendo i più piccoli, non prendevano parte a nessuna azione di guerra. Non ci vollero mai con loro. Eravamo addetti a pulire le armi, preparare da mangiare e altri lavori».

Gli “scoiattoli” di Ferruccio Parri

Ferruccio Parri (terzo da sinistra) a Milano il 25 aprile 1945

Passavano i giorni in queste attività di supporto, finché una mattina si unisce a loro un altro gruppo di partigiani. Non senza emozione, Ferdinando racconta l’incontro: «Ricordo che erano comandati da un giovane molto colto e dai modi gentili. Non sapevo il suo vero nome, ma si distingueva tra gli altri ed aveva un nome di battaglia, “Maurizio”. Si intratteneva spesso con me e Marco e ci chiamava “i miei scoiattoli”. Soltanto dopo la guerra scoprii, con sorpresa, chi fosse quel giovane partigiano. Lo vidi fotografato su un giornale. Scoprii che il suo vero nome era Ferruccio Parri, che sarebbe divenuto capo del Comitato di Liberazione Nazionale e primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana. Nella foto era ripreso insieme a Nenni e pensai: chissà se si ricorda di me e di Marco, “scoiattoli” in quella grotta del Lazio…».

La ferita alla mano

A questo punto Ferdinando riavvolge il nastro e ritorna indietro, al mese di novembre 1943. «Stavo facendo un po’ di pulizie, quando i miei occhi si posarono in un angolo della grotta e mi chinai a raccogliere un tubicino grande come una sigaretta. Qualcuno dei presenti se ne accorse e si mise a gridare: “Buttala, buttala!”. Ma era troppo tardi, mi scoppiò nella mano. Dolore indicibile, gravi lesioni, tanta perdita di sangue. Non capii più nulla. Mi coricarono su un lettino e mi ubriacarono per potermi prima sedare. Un medico era nel gruppo, non mancava mai un medico fra loro, mi operò nella grotta. L’oggetto che avevo raccolto, seppi in seguito, era un detonatore. Da quel momento seguirono tante medicazioni alla mia povera mano».

Il ritorno in Calabria

«Nel gennaio 1944 finì la nostra avventura: Marco ed io decidemmo di ritornare a Roma, mentre Giulio, l’amico più grande, rimase ancora a combattere con i partigiani. Anche per tornare a Roma, dai genitori di Marco, camminavamo di notte accompagnati da un partigiano ma fortunatamente non incontrammo ostacoli. Avevamo dato, per come possibile, il nostro contributo per la libertà della Patria!».
L’avventura di Ferdinando, vissuta in uno dei momenti più drammatici della storia nazionale, finisce qui. Vinto dalla nostalgia per la Calabria, si rifornisce di viveri e s’incammina, con la mano ancora fasciata e con tanta paura addosso per timore di essere fermato, per fare ritorno a casa. Il ritorno al Sud fu difficile, l’Italia era un cumulo di rovine e le vie di comunicazione erano quasi tutte interrotte, ma il giovane Ferdinando riesce, non senza fatica, ad arrivare alla sua Pizzo, dove i genitori, che ormai avevano temuto il peggio, lo possono finalmente riabbracciare.

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