Una malata oncologica indirizza una missiva al presidente della Regione ricordando quando l’urologo vibonese l’ha avvertita che non avrebbe potuto operarla a causa della mancanza di anestesisti: «Ora sono costretta ad andare a Cosenza»
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Le dimissioni del dottor Alberto Ventrice, urologo dell’ospedale di Tropea, continuano a generare indignazione e sconcerto tra i suoi pazienti. Tra loro c’è Katia Coloca, che ha deciso di trasformare la propria amarezza in una lettera aperta indirizzata al presidente della Regione Calabria e commissario ad acta della Sanità, Roberto Occhiuto. Un testo accorato, scritto «non per lamentarmi, ma per chiedere risposte», e che racconta la quotidiana fatica di chi si trova costretto a viaggiare per curarsi.
Coloca ripercorre innanzitutto l’ultima giornata trascorsa lontano da casa: «Buongiorno presidente Roberto Occhiuto, sono stata nella sua città, non per passeggiare, ma per fare una visita urologica». Una frase semplice che racchiude un peso enorme: la necessità di recarsi fino a Cosenza per una prestazione sanitaria che, fino a poco tempo fa, si poteva ottenere anche nel Vibonese grazie al dottor Ventrice. «Lei sa bene che anche noi a Vibo avevamo un dottore di grande spessore, il dottore Alberto Ventrice. Mi teneva sotto controllo con professionalità, umanità, a disposizione in qualsiasi momento».
La paziente racconta il momento in cui il medico le ha comunicato di non poter più garantire gli interventi necessari a causa della carenza di anestesisti: «A un certo punto, per un intervento, mi ha dovuto dire con rassegnazione e dispiacere che lui non può farmi nulla in ospedale per la mancanza di anestesisti». Una rinuncia dolorosa per il professionista, ma soprattutto un duro colpo per chi da lui dipendeva.
Coloca riconosce la qualità del personale incontrato a Cosenza («Ho trovato dei dottori eccellenti, umili, con una grande professionalità»), ma questo, sottolinea, non cancella il problema principale: la necessità di spostarsi continuamente per ricevere cure indispensabili.
«Ora vorrei sapere perché a Vibo Valentia non possiamo permetterci le dovute cure costringendo i dottori a ritirarsi? Perché siamo messi con le spalle al muro e per ogni controllo, per ogni intervento, dobbiamo metterci in viaggio?».
Il racconto personale diventa così testimonianza collettiva. Coloca, che ricorda di aver affrontato un «cancro al 4º stadio», dice di conoscere fin troppo bene gli ospedali della regione: «Giro dal 2021 a oggi, ancora tutt’ora, e chissà quanti come me…». Da qui la domanda diretta a Occhiuto: «Riesce a mettersi nei nostri panni pensando ai disagi che comportano gli spostamenti che dobbiamo fare?».
Il ritratto che emerge è quello di una città, Vibo Valentia, che si sente abbandonata: «Presidente, non ci è rimasto nulla nella nostra città, viviamo col terrore di non poterci più curare e non tutti riescono a viaggiare spesso. Nemmeno io, ad un certo punto, ci sono riuscita per vari motivi…».
Eppure, nonostante la sofferenza e lo sconforto, Coloca chiude la sua lettera con un messaggio di speranza legato alla forza della comunità: «La nostra città non ha più nulla, ma è rimasto un qualcosa che non potrà mai dimettersi da niente e nessuno: il cuore della gente, enorme, pronto ad aiutare il prossimo, com’è stato fatto anche nei miei confronti sempre e comunque».
L’appello è chiaro: intervenire per evitare che altre dimissioni, altre rinunce e altri viaggi forzati rendano ancora più fragile un territorio già provato da criticità sanitarie che lo pongono agli ultimi posti non solo in Calabria ma nell’intero Paese.



