venerdì,Aprile 19 2024

Ritorno al Sud ai tempi del coronavirus: «Dovevate proteggerlo e non l’avete fatto»

La riflessione della scrittrice Giusy Staropoli Calafati: «Avevamo già pianto quando erano partiti i nostri figli, i parenti, gli amici… oggi piangiamo ancora»

Ritorno al Sud ai tempi del coronavirus: «Dovevate proteggerlo e non l’avete fatto»

di Giusy Staropoli Calafati*

Tanti meridionali, per comprovate ragioni hanno sempre lasciato la loro terra di origine. A questo mondo, chi nasce con la camicia, e chi con un biglietto per il treno. Al Sud, in milioni, hanno avuto il biglietto. Forse un esperimento del Padreterno, per capire come l’uomo quaggiù avrebbe reagito e cosa avrebbe scelto tra le meraviglie concesse ai luoghi e il viaggio preparato per lui.

Chi con un trolley, e chi con le valigie di cartone, hanno preso treni di lunga percorrenza. Un retaggio antico della razza della gente in viaggio.

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Tanti i pianti di quelli partiti con la valigia di cartone che non sono mai neppure ritornati. Che stavano e chissà dove, e pensavano al paese. E ora riposano, non del tutto in pace, in un appezzamento di terra lontana con un sogno che non gli muore mai dentro al cuore, tornare al paese.

Tanti giovani, a volte per scelta, altre per necessità e altrettanti comprovati motivi, hanno lasciato il paese al prezzo della città. Un prezzo spesso caro, molto alto, capace di far diminuire un lato, e accrescere l’altro. Togliere al paese, per dare alle città, così che i primi si ammalano di solitudine e le altre fioriscono. I paesi si accasciano, per le perdite subite, e le città aumentano la forza lavoro, incrementano le casse e le scienze.

Quando scrissi La terra del ritorno, l’augurio era che in tanti tornassero al Sud per restare. Ma era la qualità del ritorno che contava. I ritorni per bisogno, Dio comunque li benedica, non equivalgono mai a scelte, non sanno del senso della responsabilità, e non sono dettati da nostalgie o mancanze, tanto che hanno effetti peggiori delle partenze.

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Così avviene ai tempi del coronavirus. Quando l’emergenza angoscia e l’uomo nella sua sintesi si incarognisce finanche verso se stesso.

Pertanto, l’analisi diventa necessaria, per riportare nella realtà il significato del viaggio, la sua importanza, le cause e gli effetti.

Chi parte, lasciando la propria terra di origine, è di per sé un eroe. Egli, nella pienezza delle sue facoltà, lascia la sua roba, i suoi effetti più intimi, ma soprattutto lascia le sue gioie più care, come la figliolanza e il profumo della terra, per un orizzonte che sta decisamente più in là. E nel viaggio che compie, sente come un macigno, il peso del cuore, affidando, per conto suo, a chi resta, un alibi, o anche solo una scusa per poter ritornare.

Chi resta è eroe allo stesso modo di chi parte. Intraprende a man tese, la battaglia della resistenza che va combattuta nelle terre dure, a volte incapaci di dare, pronte invece a prendere il doppio di ciò che danno. E conduce così, le sue lotte, brancolando nelle avversità. Ma caparbio  non molla, insiste, affinché, quando torna chi è partito trovi qualcuno ad aspettarlo e fargli una festa del ritorno.

Chi torna e per restare invece, è doppiamente eroe. Lascia lo spiraglio di bene certo, intravisto nella terra in cui è stato adottato, per tornare in quella natale. Dove lo portano in paradiso le polpettine della nonna, le carezze della mamma,  ma lo trafiggeranno le mille e più assenze.

Per questo i viaggi di ritorno non li sceglie mai nessuno. O troppi pochi li mettono i programma.

Ai tempi del coronavirus però, tutto cambia. L’intera nazione è messa alla prova, e i viaggi si modificano. Niente più andate, ma solo ritorni. Un’inattesa inversione di marcia, che porta al riempimento di treni che, dal Nord viaggiano verso il Sud.

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Treni di lunga percorrenza da Milano verso tutto il Sud dell’Italia. Viaggi sconsiderati, che mentre il Paese vieta a chiunque di spostarsi, proteggendo se stesso e gli altri da un nemico invisibile, di cui si conosce appena il nome, Covid-19, non si fermano. Avanzano come gli eserciti, tra pianti, paure e stridori di denti.

Non erano questi i ritorni che volevamo, noi del Sud. Avevamo già pianto quando erano partiti i nostri figli, i parenti, gli amici… quando accalcati nelle stazioni, li salutavamo. E perdevamo fior di cervelli.

Eppure, oggi piangiamo ancora.

I ritorni in massa di questi giorni, sono stati purtroppo l’ennesimo tradimento alla fragilità del Sud. Dovevamo proteggerlo, non ungerlo. Voi più di noi, dovevate farlo. Invece non è accaduto.

E allora, va detto. Cari noi e voi del Sud, che purtroppo di certezze non ne abbiamo più nessuna, e non c’è coraggio in più che valga, tra chi va, chi resta, chi torna, va detto, a gran voce, che i veri cervelli di cui la nostra terra piange l’assenza, sono tutti coloro, che anche con gli occhi lucidi e la paura, oggi, nel rosso di un’Italia traviata da un virus maledetto, sono rimasti chiusi, soli, nella loro stanza di Milano o chissà dove, magari al decimo piano di un palazzo, nel deserto di una città che aspetta insieme all’Italia di vedere una possibile luce fuori dal tunnel.

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Ecco, a loro, va il grazie di tutto il Sud. Per il coraggio e il senso della responsabilità del loro viaggio. Per aver insegnato a chi non ha resistito a restare ed è partito, che poi è sempre inutile piangere sul latte versato. E che il Sud prima che un luogo è uno stato d’animo.

*Scrittrice

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