La faida di San Giovanni di Mileto: dall’incendio di un pagliaio alla mattanza
La ricostruzione di una delle guerre di mafia più letali nella storia del Vibonese. Dallo scontro tra i Prostamo-Pititto-Iannello ed i Galati, fino allo sterminio degli Evolo sotto la regia dei Mancuso
L’incendio di un fienile: doveva essere un avvertimento, fu l’inizio di un bagno di sangue. Mileto, frazione San Giovanni, 2 ottobre 1988. Apparteneva, il fienile, a Domenico Galati, la cui famiglia, di stanza nella frazione Comparni, contendeva ai Prostamo-Pititto-Iannello il predominio su un territorio povero che però in quegli anni si era trasformato in uno snodo cruciale di traffici illeciti, in particolare per lo smercio di droga e la ricettazione di mezzi rubati. Fu Nazzareno Prostamo, fratello del “capo società” Giuseppe, a comandare l’attentato – si legge nei rapporti giudiziari – meno di un mese prima che si consumasse: correva il 9 settembre, Prostamo ricevette nel vecchio carcere Sant’Agostino di Vibo Valentia la visita di un sodale, Antonio Currà, ed impartì l’ordine. Due giorni dopo l’incendio, Currà venne assassinato: denunciati, processati e prosciolti i tre indiziati e, tra questi, proprio Domenico Galati. [Continua in basso]
L’escalation
Lo stesso Galati l’8 agosto 1989 cadde vittima di un agguato omicidiario, al quale invece «scamparono miracolosamente» – annotarono i carabinieri – i fratelli Rocco e Salvatore. Giuseppe Prostamo fu accusato di essere il mandante dell’omicidio, mentre del gruppo di fuoco avrebbero fatto parte Raffaele Fiamingo (il boss del Poro assassinato il 9 luglio 2003 a Spilinga nel contesto di un altro regolamento di conti), Peppone Accorinti (capo del locale di Zungri), Pasquale Pititto (figura apicale in seno alla ‘ndrangheta miletese) e Gaetano Purita (legato a Fiamingo e Accorinti). Anche in questo caso, i successivi sviluppi giudiziari scagionarono tutti gli indiziati. L’omicidio di Domenico Galati, d’altronde, più che la vendetta ordita per l’assassinio di Antonio Currà, sarebbe stato concepito come reazione immediata al tentativo di omicidio consumato proprio nei confronti di Giuseppe Prostamo e di Nazzareno Iannello. A sparargli, mancando il bersaglio, Rocco Cristello, genero di Domenico Galati, che diverrà un pezzo da novanta della ‘ndrangheta in Brianza e verrà ucciso il 27 marzo del 2008 su mandato del mammasantissima Carmelo Novella, a sua volta assassinato nel luglio successivo.
La morte di Nazzareno Iannello
Punto di non ritorno della faida fu l’assassinio di Nazzareno Iannello, cognato di Nazzareno Prostamo (che ne aveva sposato la sorella) e fratello del più noto Michele. Michele, considerato una delle bocche di fuoco del gruppo Prostamo-Pititto, verrà arrestato processato e condannato in via definitiva per l’omicidio del piccolo Nicholas Green e, una volta dentro per l’omicidio del bimbo americano, diventerà collaboratore di giustizia. Nazzareno Iannello fu ammazzato con un colpo di fucile alla testa: il suo corpo fu ritrovato il 28 gennaio 1990, in un terreno agricolo, sempre a San Giovanni di Mileto. Si ritenne fosse stato attirato in una imboscata: la sera prima che fosse rinvenuto il corpo, si sarebbe infatti recato in quella zona per uccidere un sodale dei Galati, ma fu lui a trovare la morte. Michele Iannello meditò immediatamente vendetta, si recò a Limbadi per ottenere il via libera alla eliminazione di Carmine Galati, che riteneva l’assassino del fratello, ma prima di compiere l’agguato, fu egli stesso vittima di un attentato rimanendo ferito ad una gamba, mentre gli altri sodali furono salvati dall’auto blindata di Giuseppe Prostamo, che successivamente prese fuoco dopo la pioggia di piombo che gli venne scatenata contro.
Un nuovo bersaglio
La faida proseguì senza soluzione di continuità: più che per rappresaglia, ad un certo punto s’iniziò ad ammazzare per non venire ammazzati. Il 17 aprile 1990 furono Antonio Tavella e Pasquale Pititto a cadere in una imboscata: il primo rimase ucciso, Pititto invece solo ferito e, una volta ripresosi, unitamente a Michele Iannello avrebbe avuto più incontri con Giuseppe Mancuso detto ‘Mbrogghjia, capo dell’ala militare dell’omonimo clan di Limbadi. Mancuso avrebbe proposto loro l’eliminazione di Antonino Evolo, vertice di un gruppo familiare presente nella frazione Paravati a loro ostile, e quella di Salvatore Galati, che a suo avviso sarebbe stato il vero responsabile dell’omicidio di Nazzareno Iannello. Evolo fu fatto sparire il 13 settembre del 1990: una lupara bianca protrattasi fino al 24 agosto 1994, quando i suoi resti furono ritrovati in località Fego Russo di Mileto. Ma nonostante questo delitto, Iannello e Pititto non ottennero il cadavere di Salvatore Galati. Anzi, il 23 novembre del 1990, fu assassinato un loro cugino, Nicola Pititto. Su imbeccata di Giuseppe Mancuso, individuarono il killer in Vincenzo Evolo, a sua volta ucciso il 7 dicembre del 1990.
La manovra di Giuseppe Mancuso
Un anno di calma apparente, poi, il 17 febbraio del 1992, un nuovo agguato, stavolta in località Barbasana di Candidoni: anche in questo caso, Pasquale Pititto riportò diverse ferite, anche gravi, ma sopravvisse. Secondo gli inquirenti sarebbe stato Giuseppe Mancuso il grande regista di una manovra tanto sottile quanto cinica: «Si può ragionevolmente ritenere – scrive il Ros nell’informativa Alba – attraverso un’attenta analisi delle vicende criminali del vibonese, che l’attentato in questione è stato commissionato proprio dai Mancuso, i quali dopo aver eliminato gli Evolo, tramite la coalizione dei due suddetti schieramenti criminali, cioè quello dei Galati e quello capeggiato da Pititto Pasquale, avevano programmato l’eliminazione dei sodali aderenti a quest’ultimo gruppo mafioso, al fine di lasciare il completo controllo del territorio all’organizzazione capeggiata da Carmine Galati».
I Galati contro gli Evolo
Tutto ciò rimanda ad un’altra faida, precedente a quella con teatro la frazione San Giovanni. Ebbe origine nel 1985: la guerra tra gli Evolo di Paravati ed i Galati di Comparni. Era il 13 luglio quando a San Gregorio d’Ippona vennero trucidati Fortunato Evolo e Domenico Mangone. Secondo le indagini esperite all’epoca, si ritenne che l’omicidio fosse stata la punizione per dei danneggiamenti compiuti nel cantiere della casa mandamentale di Mileto, i cui lavori sarebbero stati controllati da Luigi e Giuseppe Mancuso, attraverso Carmine Galati, che fecero addirittura assumere come «guardiano del cantiere». I presunti autori del duplice delitto furono arrestati, processati ma, anche in questo caso, scagionati all’epilogo del giudizio. Negli anni successivi si consumò una sequenza impressionante di agguati, mortale quello nei confronti di Salvatore Evolo (19 settembre 1989), oltre che dei già menzionati Antonino e Vincenzo. Lo sterminio degli Evolo si trascinò fino alla fine degli anni ’90, con l’omicidio, a Paravati, di Domenico Evolo, trucidato il 4 luglio 1997.
LEGGI ANCHE: La discendenza degli Zupo: il locale di San Giovanni di Mileto in una storica informativa del Ros
‘Ndrangheta: gli assetti mafiosi a Mileto nei verbali inediti di Iannello
‘Ndrangheta: operazione “Miletos”, ecco i verbali inediti della collaboratrice di giustizia ucraina