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Il parroco di Vibo Marina spiega il suo impegno come vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico

Il sacerdote ha concesso una lunga intervista al giornale cattolico Avvenire di Calabria: «Il matrimonio resta una “chiesa-domestica” anche nel dolore della separazione»

Il parroco di Vibo Marina spiega il suo impegno come vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico
Don Vincenzo Varone

«Molte persone, dopo aver celebrato il matrimonio, vivono una relazione che non sono capaci di gestire a partire dalle condizioni minime, dallo stare insieme ad altra persona che inevitabilmente si pone non come ostacolo ma come risorsa, dalla paura di affrontare gli accadimenti nel dovere di rendere partecipe il coniuge di quanto si è chiamati a vivere». Così don Enzo Varone, parroco di Vibo Marina e vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico interdiocesano calabro, che ogni giorno si confronta con le fragilità delle famiglie. Il sacerdote ha concesso una lunga intervista a Avvenire di Calabria, testata che fa parte della Federazione italiana dei Settimanali Cattolici (Fisc). Nell’articolo a firma di Davide Imeneo, scritto in occasione della Giornata Internazionale della Famiglia che si celebra ogni anno il 15 maggio, don Varone spiega il significato del suo impegno nel Tribunale ecclesiastico.
Ecco qualche pasaggio dell’articolo:


Come si intreccia la missione del Tribunale Ecclesiastico con la pastorale familiare?
«I risultati del nostro lavoro evidenziano che è la stessa missione, anche se caratterizzata da un’attenzione particolare alle situazioni di sofferenza di coppie-famiglie passate attraverso il dolore della separazione. La pastorale familiare deve sostenere i fidanzati per arrivare a celebrare un “vero” matrimonio e poi li deve accompagnare e nutrire della consapevolezza della permanente presenza di Cristo nella vita della loro famiglia; una sentenza del Tribunale ecclesiastico è una risposta alle coppie che, dopo un fallimento, si ritrovano a discernere sul significato autentico della loro relazione. Ritengo dunque che sia una missione pastorale inscindibile che ha come comune denominatore la ricerca della verità».

La famiglia viene spesso definita “Chiesa domestica”: in che modo questa espressione trova riscontro nei casi che affrontate nel Tribunale?
«Nel matrimonio la dimensione relazionale è essenziale per far sentire l’unicità di un rapporto che chiama ad essere “chiesa” a partire dalla loro casa. Nel nostro Tribunale anche una coppia ferita testimonia il suo essere Chiesa nella fatica di un cammino che ha bisogno di senso. Una coppia separata potrebbe apparire immediatamente come “non-chiesa”, ma in effetti non è così, perché ciascuna persona che ha patito il dramma di una separazione testimonia il cammino di quella Chiesa che vuole sempre più assomigliare a Cristo che dalla Croce passa attraverso la morte ed arriva alla resurrezione. L’ecclesialità che vive ogni coppia, anche quella che passa per un matrimonio dichiarato nullo, ha il suo significato nella prospettiva di un percorso di speranza che ha come fine quello di dare alla vita di ciascuno quello che le è proprio. Il matrimonio traccia inevitabilmente un cammino insieme e tutto quello che viene compiuto ha il senso di quella “casa” all’interno della quale si vive ogni bene ed anche ogni difficoltà. L’essere Chiesa domestica ha bisogno di un uomo e una donna autentica, ma ha soprattutto bisogno di avere la presenza di Dio. Nelle coppie che affrontano processi canonici di nullità di matrimonio si rivela il desiderio di essere “chiesa domestica” in modo autentico e vero, così come Dio vuole per il bene non solo dei coniugi, ma anche di tutte le persone con le quali e verso le quali sono mandati per continuare la missione della chiesa di Cristo».
L’intera intervista si può leggere QUI.

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