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L’autobomba, lo Stato e un avvocato in direzione “ostinata e contraria”

Dalla prima rissa tra le famiglie confinanti di Limbadi allo “sfratto” della salma di Matteo Vinci dall’obitorio di Vibo: Giuseppe Antonio De Pace ricostruisce tutti gli avvenimenti riconducibili al tragico eccidio del 9 aprile e ammonisce: «Il sangue innocente è un fiume carsico, impossibile arginarlo»

L’autobomba, lo Stato e un avvocato in direzione “ostinata e contraria”

L’avvocato Giuseppe Antonio De Pace, legale della famiglia Vinci-Scarpulla, è in questi giorni impegnato, com’è noto, in una strenua battaglia a fianco di Rosaria Scarpulla, madre del 42enne Matteo Vinci, ucciso dall’autobomba esplosa a Limbadi il 9 aprile scorso, e moglie di Francesco Vinci che alla medesima esplosione è sopravvissuto riportando tuttavia gravissime ustioni che da quel giorno lo costringono in un letto d’ospedale a Palermo. Ma Giuseppe Antonio De Pace ha anche intrapreso una vera e propria crociata che, libera da reverenze di sorta, lo sta portando ad assumere posizioni a dir poco scomode nel nome della tutela di quelli che ritiene essere diritti inderogabili dei suoi assistiti. L’avvocato di Soriano, con il suo eloquio altisonante e i gesti teatrali, è riuscito in un colpo solo ad “inimicarsi” pezzi di apparato dello Stato (Procura, Prefettura, Carabinieri) e associazioni antimafia come Libera (della quale ha strappato le tessere a favore di telecamera) attirandosi perfino le critiche del Movimento 5 stelle. Una direzione volutamente “ostinata e contraria”, direbbe De Andrè, che l’interessato motiva, anche, talvolta, svestendo la toga, sulla base di quanto i suoi occhi hanno potuto vedere e lui stesso constatare in ordine ai fatti che hanno portato al barbaro eccidio di Matteo Vinci

Lo fa rispondendo alla riflessione di Pietro Comito, proposta ieri da ilvibonese.it, ricostruendo episodi e circostanze drammatiche che a suo dire impongono, umanamente, culturalmente e professionalmente, l’adozione di questa scomoda posizione e che permetterebbero di «illuminare meglio la vicenda Vinci». Nella convinzione che «fino a quando il sangue innocente non troverà giustizia, è come un fiume carsico o come l’ombra di Banquo: nessuno riuscirà mai a ricacciarlo». Quindi, dopo una serie di considerazioni in replica a Comito sul richiamato “dovere di stare vicino alle vittime di mafia e di salvaguardare la credibilità delle istituzioni” (quest’ultimo concetto aspramente contestato da De Pace), l’avvocato passa a rievocare in forma cronologica le vicende di astio tra le due famiglie confinanti di Limbadi: i Vinci e i Di Grillo.  

«Settembre 2014. Tribunale di Vibo Valentia (il sottoscritto, all’epoca, neanche conosceva la famiglia Vinci). Causa direttissima, per rissa tra convicini – ricorda De Pace -. In gabbia chiusa col lucchetto sono ristretti: un’anziana signora col volto tumefatto, il cuoio capelluto lacerato, gli occhi mostruosamente gonfi (riguardi le foto d’archivio); un anziano signore, vestito alla meno peggio, con evidenti ferite al volto; un giovane rannicchiato in un angolo con lo sguardo smarrito, perso nel vuoto – tutta la famiglia Vinci-Scarpulla. Sulle panche, adagiate comodamente e libere di muoversi, tre persone (una ragazza, una donna matura e un signore sulla sessantina: i Mancuso-Di Grillo) amorevolmente accudite da uno stuolo di carabinieri, i quali, col loro comportamento stucchevole e ossequioso riservato ai loro assistiti, più che l’immagine di militari, restituivano quella di maggiordomi o lacchè: una scena vomitevole (da me ripetutamente denunciata)».

Quindi, prosegue sempre De Pace, «Primavera 2017. Incendio doloso (accertato dai Vigili del Fuoco) della taverna di proprietà dei Vinci. Denuncia da parte delle vittime con indicazione messa a verbale degli autori sospettati, i Mancuso-Di Grillo. Fascicolo finito nel porto delle nebbie. Poi – per beffa o per rincalzo, o come messaggio a suocera perché nuora intenda – intimazione da parte dell’Asp (quella – unica in Italia – ad essere sciolta per mafia) a Vinci Francesco di rimuovere le macerie. I Vinci, su mio personale suggerimento, a quel “dovere” non ottemperarono, e quelle macerie sono ancora lì, a disposizione dell’autorità giudiziaria, se la medesima volesse riaprire il fascicolo. 30 ottobre 2017. Primo pomeriggio. Mancuso Rosaria, Di Grillo Domenico, Barbara Vito, armati di una pistola a tamburo, un pesante randello e un forcone di ferro, aggrediscono il signor Francesco Vinci. Una macelleria messicana. Il malcapitato riporta lesioni cerebrali, lo spappolamento della mandibola, la devastazione delle gengive con perdita di tutti i denti, contusioni in tutto il corpo. Lasciato per morto, riesce a salvarsi solo per essere riuscito, prima di stramazzare al suolo, ad avvertire telefonicamente la moglie che, giunta sul posto, vede fuoriuscire dal cranio della vittima materia cerebrale e dalla bocca grumi neri di materia organica. Il povero Vinci, dopo due giorni di coma, viene riportato in vita dai medici di Catanzaro, ma le conseguenze del massacro se le trascina ancora. In prima battuta, la denuncia della moglie, sentita sommariamente dai carabinieri, indica, per averli visti sul luogo dell’aggressione, gli autori della medesima: Mancuso Rosaria, Di Grillo Domenico e Barbara Vito (loro genero). Queste e le altre circostanze del fatto vengono poi illustrate agli inquirenti, da parte del signor Vinci, alla ripresa delle sue facoltà cognitive. Dal lato dell’attività giudiziaria non succede nulla. Rubricata la denuncia, sistemate le carte, tutto passa in cavalleria. I Mancuso-Barbara-Di Grillo liberi come rondini a primavera, i Vinci a combattere con la malattia, l’angoscia, l’abbandono e le continue minacce della famiglia mafiosa. Le sue tanto amate Istituzioni, dottor Comito, inerti, silenti, corrive».

Poi, il 9 aprile 2108. «L’autobomba. La morte sul colpo del povero Matteo, il ferimento di suo padre. L’obitorio. L’Ospedale di Palermo. La terapia intensiva. L’angoscia della signora Rosaria; il suo abbandono nella solitudine più nera. La collaborazione totale alle indagini. La consegna spontanea e incondizionata (su mio suggerimento) del cellulare di Matteo. Il compenso: lo sbeffeggiamento arrogante e protervo di una donna anziana sbattuta in qual tritacarne, da parte dell’Istituzione con quella sua triste uscita sulle “misure tutorie adeguate e congrue… seguiamo gli sviluppi del caso…” che come un mantra ripete in ogni occasione, senza mai dire in che consistono, visto che nessuno le ha mai constatate». 

Infine «il 14 giugno, avantieri. Lo “sfratto” ingiurioso della salma dalla cella frigorifera. Il cadavere (la persona! dottor Bava! la persona. Non il sacco col cadavere!) riposto in un angolo dell’obitorio di Vibo Valentia. Francesco Vinci a combattere, solo, senza alcun familiare vicino, la malattia. La signora Sara a combattere col cane nero della depressione incalzante e disperante, generata dall’abbandono in cui è stata lasciata. I social (da cui sono scevro per mia scelta deliberata, e sempre memore del monito di Umberto Eco: arena di asini da tastiera) a fare il tifo per la Roma e per la Lazio. Niente protezione. Niente funerali di Stato. Giusto. Così hanno deciso le Istituzioni. Chi ha orecchie per intendere intenda. Denunciate. Collaborate. Vinci, Scarpulla, De Pace (sì, siamo un tutt’uno, checché ne dica il leone da passerella liturgica di turno) non demordono. Ma “Verrà il giorno in cui…” (Fra’ Cristoforo, i Promessi Sposi)».

Quindi, le conclusioni di De Pace: «I fatti hanno la testa dura, sono inequivocabili, incontrovertibili. Le Istituzioni hanno abbandonato i Vinci al loro destino. E chi ha iniziato il lavoro, ne stia certo, lo porterà a compimento. Chi scrive non è caduto dal cielo; conosce le dinamiche mafiose, e amaramente conclude che, forse, chi queste dinamiche è contrattualmente e istituzionalmente preposto a contrastarle, o non le ben conosce, o le conosce troppo bene». Aggiungendo a margine: «ancor prima di avviare la piattaforma di crowdfunding cominciano ad arrivare adesioni. Tuteleremo, anche fisicamente, i Vinci».

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