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Giovanni Falcone a 30 anni dalla morte: il ricordo e il dovere di combattere la mafia

Il 23 maggio 1992 con il giudice palermitano persero la vita la moglie Francesca Morvillo e i gli agenti della scorta. I principali strumenti con cui si contrastano le mafie frutto delle sue intuizioni

Giovanni Falcone a 30 anni dalla morte: il ricordo e il dovere di combattere la mafia
Falcone e Borsellino, scatto storico dall'ansa

di Anna Foti

La memoria diventa speranza se l’esempio diventa azione e la legalità, unico antidoto alla mafia e alla corruzione, una pratica quotidiana. Al cospetto del sacrificio del bene supremo della vita, condividere nei comportamenti questo valore è un dovere della coscienza, un’urgenza. Il cammino è ancora lungo ma non deve arrestarsi e giornate come quella odierna sono necessarie per non smettere di camminare e non cedere alla rassegnazione. [Continua in basso]

Non eroi ma istituzioni migliori

Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, sono nomi ormai patrimonio collettivo la cui storia è la nostra storia. In questo trentennale – 23 maggio 1992/2022 -ricordando la strage di Capaci, si impone la necessità di rinnovare la consapevolezza dell’impegno contro le mafie: fin quando esso resterà di pochi, ci saranno quegli eroi per i quali Bertolt Brecht definiva sventurata una società. Invece quel rigore, quella integrità, quell’etica devono essere la regola e non l’eccezione, affinché, come auspicato dal procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dallo scrittore Antonio Nicaso, persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non si debbano chiamare eroi. Solo nella normalità della legalità c’è possibilità di futuro.

Fu proprio Giovanni Falcone a dichiarare in un’intervista che: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».

Il maxiprocesso e la reazione violenta di Cosa Nostra

Il 23 maggio 1992, il giorno della deflagrazione sull’A29 che spezzò la vita del giudice Giovanni Falcone e della moglie Francesca e degli agenti della scorta che avevano il dovere di proteggerlo, fu il giorno scelto da Cosa nostra per reagire violentemente alla dura azione di contrasto dello Stato cristallizzata nella sentenza del Maxiprocesso di Palermo, confermata in Cassazione proprio nel gennaio di quell’anno. Gli ergastoli, tra cui quello di Totò Riina, principale responsabile delle stragi del 1992 e di altri omicidi, erano 19, oltre 2600 anni complessivi di reclusione comminati.

Fu il processo penale più imponente di sempre, 460 imputati, istruito da Falcone e Borsellino nella prima metà degli anni Ottanta. Quel giudizio per delitti di mafia era iniziato il 10 febbraio 1986 per terminare cinque mesi prima della strage di Capaci. Ma ad ogni passo compiuto per arrivare a quel processo fu versato del sangue innocente. [Continua in basso]

Sangue innocente

Mentre i Corleonesi segnavano a Palermo la loro ascesa criminale e continuavano a versare sangue – nel 1979 il giudice Cesare Terranova e il poliziotto Boris Giuliano, nel 1980 il magistrato Gaetano Costa e il presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella (Dc), fratello dell’attuale presidente della Repubblica Sergio, nel 1982 il prefetto di ferro Carlo Alberto dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, e il sindacalista e deputato Pio La Torre (Pdci) e l’autista e scorta Rosario Di Salvo – l’avvio del pool svelava equilibri ed intrecci criminali e pertanto chiamava altro sangue: Antonio Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, uccisi nell’estate del 1985. Antonino Scopelliti, sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, assassinato il 9 agosto 1991 a Campo Calabro, prima delle arringhe nei giudizi di appello proposti avverso le sentenze di condanna del maxiprocesso, al quale il lavoro del pool aveva condotto.

Il 23 maggio 1992 è, dunque, un giorno legato a tanti altri prima e a tanti altri dopo. Uno su tutti il 19 luglio dello stesso anno quando invia D’Amelio un’altra esplosione uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

L’esperienza decisiva del pool antimafia di Palermo

Seguire i soldi non potendo seguire la droga. Coordinare le indagini per garantire un flusso costante e aggiornato di informazioni in modo da monitorare il più compiutamente possibile tutti i segmenti del complesso fenomeno mafioso, che all’ombra dell’ondata terroristica iniziava a divorare l’intero Paese. Dissero sì a questo metodo, valido ancora oggi come allora, Rocco Chinnici prima e, dopo il suo assassinio per mano della mafia il 29 luglio del 1983, il successore Antonino Caponnetto, quando sostennero la creazione del pool antimafia che istruì il primo quel maxi processo contro Cosa Nostra della storia giudiziaria del nostro paese. Ne facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Decisiva fu per iniziare a svelare Cosa Nostra e la sua struttura la collaborazione del pentito Tommaso Buscetta. Un lavoro meticoloso tra centinaia di faldoni spulciati anche durante “l’esilio” nel  1985 sull’isola di Asinara, in Sardegna, dove il capo del pool antimafia palermitano, Antonino Caponnetto, li aveva fatti trasferire con le famiglie per proteggerli. Quei faldoni sarebbero poi stati inviati nell‘estate del 1991 a Campo Calabro, nel reggino, all’indirizzo di Antonino Scopelliti, sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, che lavorava al rigetto dei ricorsi avverso le condanne emesse in appello nel maxiprocesso di Palermo. Quella stessa estate, prima che potesse discuterle, il giudice Antonino Scopelliti fu assassinato. Giovanni Falcone si recò in Calabria, in quella circostanza, per manifestare vicinanza ai familiari. 

Fu proprio quel maxiprocesso istruito con dovizia e arguzia a segnare l’inizio della fine del pool. Giovanni Falcone, al quale venne preferito Antonino Meli alla guida del pool dopo Caponnetto, venne trasferito a Roma, nominato direttore generale degli Affari Penali mentre, nel dicembre 1986, l’amico e collega Paolo Borsellino fu nominato procuratore della Repubblica di Marsala. L’esperienza del pool antimafia di Palermo, nato dall’intuizione di Rocco Chinnici nel 1983, reso operativo e sviluppato da Antonino Caponnetto, fu sciolto nel 1988 dal successore Antonino Meli.

Tenace e perseverante, da Roma Falcone continuò – tra il 1988 e il 1991 – a lavorare per Palermo, restando esposto al punto da essere bersaglio di un attentato sventato nel 1989 all’Addaura, nel palermitano, menrte si trovava in vacanza.

L’eredità di un lavoro straordinario

Nonostante tutto, l’esperienza del pool non andò dispersa. I principali strumenti con cui si contrasta la mafia oggi sono il frutto di quell’esperienza. La Direzione Nazionale Antimafia diretta dal Procuratore nazionale antimafia – centro di coordinamento delle indagini sulla mafia – come anche l’aggressione alla dimensione economica criminale della mafia, poi compiutasi con l’intuizione di Pio La torre della confisca dei beni sono una insostituibile eredità dell’operato e dell’intuizione di Giovanni Falcone che, pur tuttavia, nel 1992 non fu nominato alla prima guida della neonata Direzione nazionale antimafia.

Per la strage di Capaci, seguirono processi che portarono a decine di condanne all’ergastolo tra le quali quella del mandante Totò Riina e quelle di Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia, Matteo Messina Denaro. Condannati anche Giovanni Brusca – uomo di fiducia di Riina al quale fu affidato il telecomando a distanza che fece esplodere il tritolo nella strage di Capaci –  Bernardo Provenzano, Michele Greco, Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore e Giuseppe Montalto.  Ancora risuonano con forza le sue parole: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini». Purché altri uomini scelgano di camminare liberi.

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