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Rinascita Scott, la vittoria amara di Pietro Giamborino, per i giudici resta «un politico torbido» che appartiene «alla zona grigia»

L’ex consigliere regionale è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa, ma le motivazioni della sentenza suonano per lui come una condanna morale che abbraccia tutto l’arco della sua vita pubblica

Rinascita Scott, la vittoria amara di Pietro Giamborino, per i giudici resta «un politico torbido» che appartiene «alla zona grigia»
Pietro Giamborino

di Marco Cribari
Un politico dalla «condotta torbida», che si lancia, in modo «allarmante», nell’elogio dell’antica società di ‘ndrangheta e mostra «intimità» con esponenti della criminalità organizzata. Per i giudici di Rinascita-Scott, Pietro Giamborino rappresenta tutto questo. Ciò nonostante, durante il processo, non sono emersi elementi così concreti per poterlo condannare, se non a una pena irrisoria – un anno e sei mesi – per un reato secondario come il traffico di influenze. Le motivazioni della sentenza che assolve l’ex consigliere regionale vibonese dall’accusa di associazione mafiosa, fanno registrare, nella parte che lo riguarda, una coda impietosa.

Al giudizio di colpevolezza, escluso con formula dubitativa – la vecchia «insufficienza di prove» – il collegio sopperisce, infatti, con una condanna morale di quello che, dopo Giancarlo Pittelli, era l’imputato “eccellente” del processo. Non a caso, la Dda avrebbe preferito punirlo con vent’anni di carcere, ritenendolo portatore di una mafiosità per certi versi genetica: mafiosi erano il padre i gli zii, mafiosi sono i cugini, mafioso è anche lui. In tal senso, gli indizi facevano leva soprattutto sulle dichiarazioni dei pentiti Raffaele Moscato e Andrea Mantella, secondo i quali, in passato, Giamborino era stato parte integrante della locale di ‘ndrangheta di Piscopio da cui s’era poi distaccato per non compromettere la sua carriera politica.

Nel tempo, però, avrebbe continuato a interagire con il suo vecchio ambiente di riferimento in termini di scambio di voti e di favori. Come rilevano i giudici, però, le indagini – e in seguito il processo – non hanno offerto riscontri alle parole dei collaboratori. Più in generale, precisa la sentenza, «non è stato individuato lo specifico e consapevole contributo causale che il Giamborino avrebbe apportato alla consorteria».

Il fatto che s’incontrasse con pregiudicati, ricorrendo a una serie di precauzioni per non essere seguito o intercettato, rimanda a sue «allarmanti commistioni» con ambienti criminali; «moralmente discutibile» è che con queste persone parlasse finanche di appalti: infine, che lui stesso nutrisse timori di essere indagato o arrestato, può essere ritenuto sintomatico del suo coinvolgimento in «contesti quantomeno torbidi». Al tempo stesso, però, si dà atto di come le affermazioni di Moscato e Mantella siano «imprecise» e a volte «contradditorie». E gli stessi impegni che Giamborino avrebbe assunto per favorire l’associazione mafiosa, «si intuiscono, ma non si riescono a ricostruire con la dovuta precisione». 

Sul suo conto, insomma, i sospetti abbondano, senza che questi, però, si tramutino in certezze. E così, nell’impossibilità di condannarlo, si è ripiegato su una censura che abbraccia l’intero l’arco della sua attività politica e amministrativa. «Verosimilmente, fa parte della zona grigia» è la formula che, più d’ogni altra, conferma questa impostazione. Un’ordalia che trova compimento in intercettazioni “nostalgiche” in cui Giamborino si lancia in elogi della vecchia onorata società, formata da «persone serie e sagge», che non «facevano male alla società», ma che addirittura erano unite a essa «come in un club». Tempi, quelli da lui vagheggiati, in cui la ‘ndrangheta «non rubava, non faceva droga e imbrogli», a differenza di una contemporaneità definita alla stregua di «una porcheria» in cui «conta solo chi ammazza».

Durante il processo, il diretto interessato aveva provato a minimizzare quelle parole, assegnando loro carattere puramente retorico, quasi accademico. Sosteneva, inoltre, che alcuni frammenti di dialogo non fossero stati valorizzati a dovere dagli inquirenti. Ad esempio, uno in cui dice: «Aveva ragione Giovanni Falcone, tutto questo prima o poi finirà». Riguardo ai pentiti, poi, aveva utilizzato parole sferzanti, definendoli «prezzolati di Stato». Alla fine, dal punto di vista giudiziario, ha avuto ragione lui. Mai, però, assoluzione fu tanto amara.             

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