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Rinascita Scott, il capitano del Ros ed i riscontri alle accuse mosse a Pietro Giamborino

Il politico di Piscopio chiamato a deporre nel maxiprocesso mentre il teste della Dda ha ripercorso in aula i suoi contatti, rapporti, intercettazioni e controlli del territorio anche con uno dei boss di Limbadi

Rinascita Scott, il capitano del Ros ed i riscontri alle accuse mosse a Pietro Giamborino
Pietro Giamborino

di Marco Cribari

Il gran giorno di Pietro Giamborino sulla scena del maxiprocesso Rinascita Scott arriverà con 24 ore di ritardo. L’udienza di ieri dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia (aula bunker di Lamezia Terme), infatti, avrebbe dovuto includere anche l’esame dell’ex consigliere regionale sotto accusa per associazione mafiosa (riqualificata dal Riesame in concorso esterno) e corruzione elettorale, ma l’audizione in aula del capitano dei carabinieri Gianluca Lagumina, in servizio al Ros centrale, si è protratta più del previsto: ben otto ore al netto di 45 minuti di break, il che ha suggerito ai giudici di rinviare l’appuntamento con uno degli imputati eccellenti del processo. Prima, però, si dovrà procedere con il controesame dell’ufficiale del Ros, ovvero l’investigatore che nell’ambito dell’inchiesta si è occupato più di altri del politico 62enne originario di Piscopio. [Continua in basso]

Andrea Mantella

Rispondendo alle domande del pm Andrea Mancuso, Lagumina ha ripercorso una parte delle indagini eseguite sul conto di Pietro Giamborino, i cui pilastri sono rappresentati dalle dichiarazioni rilasciate sul suo conto tra il 2015 e il 2016 da due collaboratori di giustizia, Andrea Mantella e Raffaele Moscato. «Uomo d’onore della vecchia ‘ndrangheta di Piscopio» lo definiva Mantella, riconducendo le sue fortune elettorali all’appoggio ricevuto nel tempo non solo dal clan dei Piscopisani, ma da un po’ tutta la criminalità vibonese. Il testimone era chiamato a riferire sui riscontri investigativi associati a questa e altre dichiarazioni e lo ha fatto richiamando una serie di intercettazioni provenienti anche da altri procedimenti penali del passato.

Giovanni Giamborino

Pietro Giamborino (difeso dagli avvocati Enzo Belvedere e Domenico Anania), infatti, era stato già sfiorato da sospetti di contiguità mafiose in inchieste poi archiviate. Ciò anche in virtù delle sue parentele con presunti esponenti di spicco del clan dei Piscopisani: gli zii paterni Michele e soprattutto Giuseppe Salvatore detto “Fiore” Giamborino; il figlio di quest’ultimo Giovanni Giamborino; un altro cugino diretto a nome Pino Galati, alias “Il ragioniere”, già inquadrato al termine del processo “Crimine” con il ruolo di capo società. Proprio queste affinità pericolose fanno da cornice ora alle nuove accuse formulate contro di lui. In tal senso, Lagumina ha ricordato un’intercettazione ambientale del 31 marzo 2018 che vede a colloquio Pietro Giamborino con un suo nipote nella quale l’ex consigliere regionale parla della vecchia ‘ndrangheta in termini elegiaci, facendo riferimento anche ai suoi avi. Per lui «l’onorata società» era quella che non «trafficava in droga», che utilizzava criteri molto restrittivi per le affiliazioni e che «non aveva bisogno di ammazzare cristiani per dimostrare di contare qualcosa».  [Continua in basso]

Ci sono poi alcuni controlli di polizia che lo riguardano. Molto datati, ma che la Dda ritiene importanti. Il testimone ne ha parlato all’inizio della sua deposizione: il 28 maggio 1990 Pietro Giamborino viene fermato a Pizzo Calabro in compagnia del  boss di Limbadi Pantaleone Mancuso (cl. ’47), detto “Vetrinetta”; otto anni più tardi, il 3 novembre del 1998, gli agenti lo controllano in viale Matteotti a Vibo Valentia a bordo di un’auto in compagnia del cugino Giovanni Giamborino e di Ugo Bellantoni. Il primo è stato anche lui arrestato nell’operazione Rinascita-Scott per associazione mafiosa in quanto ritenuto uomo di fiducia del boss Luigi Mancuso, mentre la posizione di Bellantoni è stata stralciata già all’atto degli avvisi di conclusione delle indagini preliminari.

Pino Galati

Da un cugino all’altro, si è parlato anche del suo rapporto con Pino Galati sul quale prima del suo arresto, proprio Pietro Giamborino si esprimeva così: «Aspetto la sera che si ritiri per vederlo che vuole sempre dirmi qualche cosa e poi chiudo e me ne vado…che dalla finestra dobbiamo parlare… che c’è quella telecamera là». Il sospetto degli inquirenti è che lo abbia favorito con l’Asp vibonese per fargli ottenere l’abitabilità di un locale commerciale da adibire a bar. Anche l’appellativo «compare» da lui utilizzato con parsimonia – si rivolgeva così a tre o quattro persone al massimo – viene utilizzato in chiave d’accusa, secondo l’accezione ultra ‘ndranghetista che ne dava lo storico pentito Giacomo Ubaldo Lauro.

E poi ancora i toni iperbolici da lui utilizzati nel rievocare il defunto Michele Patania, che «se non fosse morto a soli trentott’anni avrebbe comandato in Calabria». Vecchie fascinazioni e circostanze più concrete come la raccomandazione alla figlia di Luigi Mancuso per aiutare a superare il suo ultimo esame universitario. È su questo e altro che Pietro Giamborino, difeso dall’avvocato Enzo Belvedere, riferirà tra poche ore in aula. In ballo, per lui, non c’è solo la reputazione, ma il senso di un’intera esistenza.   

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