martedì,Marzo 19 2024

‘Ndrangheta: “Black money”, ecco i motivi della sentenza contro il clan Mancuso

I giudici del Tribunale collegiale di Vibo Valentia in 450 pagine spiegano il percorso logico-giuridico del verdetto emesso il 17 febbraio scorso. "Nessuna prova del reato associativo"

‘Ndrangheta: “Black money”, ecco i motivi della sentenza contro il clan Mancuso

Sono state depositate dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto da Vincenza Papagno e con a latere i giudici Pia Sordetti e Giovanna Taricco, le motivazioni della sentenza con la quale il 17 febbraio scorso è stato chiuso in primo grado il processo nato dall’operazione antimafia denominata “Black money” scattata nel marzo 2013 con il coordinamento della Dda di Catanzaro.

La camera di consiglio era durata dieci giorni. Gli anni di pena complessivi sono 47 a fronte dei 220 anni di carcere chiesti dal pm Marisa Manzini al termine della requisitoria.

La mancanza del reato associativo. I giudici, nell’escludere che la pubblica accusa e gli investigatori abbiano portato nel processo prove tali da poter arrivare ad emettere una sentenza di condanna per il reato di associazione mafiosa, analizzano tutte le prove imputato per imputato ripercorrendo fatti ed avvenimenti. Per tutti concludono che ai “fini della contestazione associativa tutte le vicende trattate non forniscono alcun contributo alla ricostruzione della compagine e dell’operatività della stessa”.

In particolare, per quanto attiene Giovanni Mancuso (condannato comunque a 9 anni di reclusione per usura a fronte dei 29 anni di carcere chiesti dal pm Manzini), il Collegio sottolinea che le dichiarazioni del pentito Andrea Mantella in ordine ad un litigio con Mancuso avvenuto nel 2004 dinanzi al mercato di Vibonon appaiono particolarmente significative” ai fini della dimostrazione del reato di associazione mafiosa, “anche – scrivono i giudici – per la mancanza di riscontri alle dichiarazioni stesse in merito al motivo del litigio tra il Mantella e il Mancuso ed in considerazione della strana circostanza secondo la quale Giovanni Mancuso, definito dall’accusa come il capo della più importante famiglia di ‘ndrangheta, in seguito a tale lite abbia poi lasciato a Mantella, che nel 2004 si stava affacciando nelle dinamiche criminali del territorio, il monopolio della carne su Vibo”. Non solo. Per i giudiciin ogni episodio, che non è confluito in un singolo capo di imputazione, è Giovanni Mancuso ad agire, seppur avvalendosi di altri soggetti spesso diversi (Gaetano Muscia e D’Aloi, unici imputati del procedimento e che compaiono solo nell’usura ed estorsione praticata a Canino) in autonomia e senza alcun raccordo o beneficio per gli altri componenti della compagine in esame che non appaiono mai nelle dichiarazioni testimoniali e nelle intercettazioni relative a tali vicende usurarie”.

In ordine a Giuseppe Mancuso (cl. ’77), la contestazione del reato di associazione mafiosa è stata spiegata in aula dal colonnello del Ros, Giovanni Sozzo – uno dei principali investigatori dell’inchiesta – con il fatto che l’ipotesi investigativa in base alla quale avrebbe preso il posto del padre detenuto Pantaleone Mancuso (“Vetrinetta”) si “fondava sull’esperienza in indagini di criminalità organizzata dalle quali si apprendeva – spiegano i giudici riportando il ragionamento del colonnello – che allorchè il capo di un’organizzazione si trova ristretto o limitato nei movimenti, è il figlio maschio ad assumere il ruolo direttivo in sostituzione del genitore e sull’evidenza riscontrata che Pantaleone Mancuso, sottoposto a misura di sicurezza al momento dell’uscita dal carcere, aveva adottato sofisticati sistemi per evitare di essere intercettato”. Per i giudici tale ragionamento dell’investigatore non basta tuttavia a poter condannare un imputato per il reato di associazione mafiosa. Inoltre, gli elementi “probatori raccolti durante le indagini non hanno consentito di suffragare tale ipotesi”.

Anche in ordine al fatto che Giuseppe Mancuso abbia costituito delle società nel 2001 e nel 2007, la stessa “non contribuisce da sola a provare l’esistenza della cosca negli anni qui in esame”. Le intercettazioni portate poi all’attenzione dei giudici non bastano a provare “quantomeno in maniera univoca, il ritenuto avvicendamento di Giuseppe Mancuso nel ruolo direttivo che era stato del padre Pantaleone Mancuso”, tenuto anche conto che “Pantaleone Mancuso nelle intercettazioni nel casolare di campagna si dilunga spesso in aspre critiche nei confronti del figlio”. Il pm Marisa Manzini aveva chiesto per Giuseppe Mancuso la condanna a 19 anni di carcere (condannato poi ad un anno e sei mesi per un reato minore).

La posizione di Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”. Per i giudici le dichiarazioni dei collaboratori Loredana Patania di Stefanaconi, Daniele Bono di Gerocarne, Raffaele Moscato di Vibo Marina, Andrea Mantella e di altri testi “disegnano in maniera chiara la caratura criminale dell’imputato, la sua figura di rilievo e di riferimento nell’ambito delle faide in atto dal 2011 in avanti”. Tuttavia il Tribunale sottolinea che “non può di certo sfuggire come ogni collaboratore nel riferire l’interessamento e le condotte dell’imputato nella faida, faccia esclusivo riferimento a Pantaleone Mancuso “Scarpuni” come singolo”. Nessuno ha rapporti con Mancuso Pantaleone, né attribuisce tali condotte alla famiglia Mancuso nella sua genericità o nell’interesse della stessa. Anzi, il collaboratore Moscato fa riferimento ad un interessamento di Salvatore Cuturello, parente dell’imputato Mancuso, all’uccisione di Scarpuni”. Manca quindi qualunque prova del collegamento di Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni” con la propria famiglia di ‘ndrangheta ed il processo ha anzi dimostrato che “Mancuso sembra muoversi ed avvalersi di persone diverse dagli odierni imputati”. Tutti i collaboratori di giustizia, inoltre, nell’indicare quali siano i soggetti “vicini a Mancuso citano persone non imputate in questo procedimento e non appartenenti alla famiglia anagrafica dei Mancuso”. Sottoposto alla sorveglianza speciale dell’obbligo di soggiorno a Nicotera Marina, per i giudici è provato che lo stesso dagli atti portati dall’accusa “non ha mai intrattenuto il minimo rapporto con gli altri parenti o imputati, ma è riuscito ad averne con altri soggetti del tutto estranei alla contestazione associativa”. Nei confronti di Pantaleone Mancuso “Scarpuni”, il pm Marisa Manzini aveva chiesto 26 anni e 6 mesi di carcere.

Il ragionamento logico e giuridico alla base delle assoluzioni. Ad avviso del Tribunale di Vibo Valentia, oggetto del processo non è la caratura criminale dei singoli imputati (o meglio, non solo) – “certamente sussistente nel caso specifico” – bensì “l’esistenza di un gruppo unitario di cui gli stessi facciano parte, dal quale provengano le decisioni e le direttive in merito agli scopi da perseguire e alle modalità con cui farlo, dal quale trarre le risorse per attuare il programma comune al quale siano riconducibili le attività dei singoli”. Esistenza di cui il Tribunale non ritiene che la Dda di Catanzaro abbia fornito prova. L’affectio societatis richiede – concludono i giudici -, pur prescindendo da personali simpatie o antipatie tra gli associati e dalle opinioni che si possano nutrire rispetto ad alcuni di questi, necessariamente una obiettiva convergenza di intenti, che evidentemente in questo caso non sussiste o, comunque, non può ritenersi provata sulla base di questi elementi”.

Non bastano, dunque, gli elementi di prova portati in aula dal pm Marisa Manzini per ritenere provata l’accusa di associazione mafiosa contestata agli imputati e da qui le assoluzioni.

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