Sarà la Prefettura di Vibo Valentia a rilasciare l’eventuale autorizzazione al cambio della denominazione della villa comunale di Stefanaconi (oggi intitolata all’insegnante Elena Bellantoni) che la Commissione straordinaria alla guida del Comune vorrebbe invece intestare al magistrato Rosario Livatino, indiscusso simbolo della lotta alla mafia ed eroe civile del nostro Paese, nonché martire della fede e per questo dichiarato Beato da Papa Francesco il 9 maggio del 2021.

Assassinato nel 1990 ad Agrigento dalla Stidda, la sua morte rappresentò un vero e proprio martirio alla luce della sua incrollabile fede cristiana e della sua monumentale dirittura morale. Dunque una figura unanimemente considerata degna e certamente meritevole di essere annoverata nella toponomastica di qualunque paese e città d’Italia. Per la Commissione composta da Raio, Todini e Laino, il profilo perfetto per rappresentare quell’ideale di “legalità” che ha ispirato, pochi giorni fa, la delibera di variazione.

Fin qui tutto ineccepibile, ma oggi sono in tanti a chiedersi, a Stefanaconi, perché non intitolare al “giudice ragazzino” una via o un altro luogo (“ex novo” o variando denominazioni “anonime”, laddove presenti) anziché intervenire su uno spazio pubblico al cui nome è legata una precisa identità che si è ormai radicata nel patrimonio immateriale della comunità. Sarà la Prefettura a decidere, come viene del resto specificato nella delibera trasmessa proprio all’Utg per l’autorizzazione.

E proprio alla Prefettura in molti adesso guardano nella speranza che questa corregga il tiro rispetto ad una decisione che viene vista come una «palese ingiustizia». E che potrebbe configurare, secondo alcuni, anche la violazione di un accordo sull’intitolazione dell’ex “Giardino dei Natoli” (così era conosciuto un tempo) che la famiglia Rubino-Bellantoni sancì come condizione della vendita a prezzo agevolato al Comune negli anni ’90, quando l’ente era guidato dalla “sindaca coraggio” Elisabetta Carullo. Quando le fiamme dei roghi dolosi crepitavano e le pallottole delle intimidazioni fischiavano nelle orecchie di quanti si apprestavano ad assumere ruoli pubblici o ad impegnarsi a qualsiasi titolo nel sociale. Gli anni della cosiddetta “Primavera di Stefanaconi”.


A ricordarlo lucidamente è oggi il giornalista Salvatore Berlingeri, tra i testimoni diretti di quella stagione di riscatto e legalità. «Il problema è di natura identitaria – scrive Berlingeri -, volendo fare una ricostruzione la villa inizialmente si doveva chiamare “Giardino della cultura“, successivamente e visto anche la proposta conveniente per il Comune si è deciso di intitolare la stessa a Elena Bellantoni, la cui memoria si identifica con gli interessi perseguiti dall’Amministrazione comunale del tempo (siamo a metà degli anni ’90), ovvero la cultura come antidoto ad ogni forma di illegalità.

Quel “giardino della cultura” inaugurato dal celebre pianista di fama internazionale, nonché cittadino onorario di Stefanaconi, Rolando Nicolosi, era piaciuto tanto all’ex sindaco Maria Luisa Carullo e al Consiglio comunale di allora, di cui facevo parte, tanto che si è deciso di lasciarlo in aggiunta al nome, entrambe sono complementi di una denominazione che fa parte della storia del nostro paese. Ed è una storia di legalità. Per la cronaca – conclude Berlingieri – la denominazione di “Giardino della cultura” è piaciuta tantissimo al giudice Antonio Caponnetto, già capo del Pool di Palermo (di cui facevano parte anche Falcone e Borsellino)». Di «atto che offende la comunità» parla invece il gruppo Siamo Stefanaconi, vale a dire l’ultima maggioranza alla guida del Comune prima dello scioglimento degli organi elettivi.

«La decisione dei commissari straordinari di cambiare il nome della nostra Villa Comunale, dedicata ad Elena Bellantoni, ha lasciato senza parole l’intera comunità. Invece di preoccuparsi di riaprirla e renderla fruibile ai cittadini (visto che da quando si sono insediati è rimasta chiusa) hanno pensato bene di ribattezzarla “Giardino della Legalità”. Ma chi conosce la storia del nostro paese sa che quella Villa è già un simbolo della vera legalità, conquistata con fatica negli anni della “Primavera di Stefanaconi”, quando la nostra comunità seppe reagire con dignità e coraggio alla sopraffazione mafiosa.

Inoltre – secondo gli ex amministratori -, la scelta è stata fatta senza alcun rispetto delle procedure: il nome “Elena Bellantoni” era frutto di un accordo contrattuale con la famiglia Rubino. Siamo di fronte quindi non solo a un atto irrispettoso verso la memoria di Elena Bellantoni e dei suoi familiari, ma anche a una forzatura giuridica e istituzionale che stride proprio con il principio di legalità che si vorrebbe evocare. Il nostro movimento – si aggiunge – difenderà la storia e la memoria del paese».

Ancora più polemico il più volte assessore comunale Fortunato Cugliari. «Quella Villa non è un semplice spazio verde. È stata costruita con coraggio, visione e impegno concreto per la comunità. Arrivò in un momento storico particolare, fatto di scelte forti e di responsabilità, e rappresentò un vero punto di svolta per Stefanaconi: un luogo di incontro, di socialità, di giochi per i bambini, di incontri tra generazioni. Una casa di comunità, aperta a tutti. Oggi, dopo quasi un’intera estate di chiusura, arriva il “colpo di scena”: il cambio del nome della Villa.

Non un atto di gestione, ma uno strappo alla comunità, un gesto che ignora la storia, le emozioni e i legami che la Villa rappresenta per intere generazioni. È un pugno nello stomaco per chi frequenta quel luogo e per i familiari della compianta Elena Bellantoni. Non fraintendetemi: la memoria del giudice Rosario Livatino è nobile e meritevole di onore. Ma non è questo il problema – spiega Cugliari -. Se l’intento era valorizzarlo, si sarebbe potuto intitolargli una via, una piazza o il Parco Urbano. Perché colpire proprio la Villa, cuore pulsante della comunità?».

Interrogativo, quest’ultimo, che ricorre nei tantissimi commenti che in queste ore si susseguono sulla piazza virtuale, con il dichiarato auspicio che la decisione possa essere rivista dalla stessa Commissione o anche dalla Prefettura vibonese. Del resto, ci si chiede, basta sventolare un simbolo, per quanto nobile, per “imporre” la legalità in un contesto sociale nel quale i luoghi di condivisione, socialità e, dunque, sano contrasto alle illegalità vanno sempre più riducendosi?

Lo testimoniano gli impianti sportivi ancora chiusi dopo ingenti investimenti di riqualificazione; quelli abbandonati a sé stessi come il campetto di Pajeradi, dove i ragazzi hanno libero accesso in condizioni precarie di sicurezza; la biblioteca comunale inaccessibile o la stessa Villa Elena, solo di recente riaperta grazie alla disponibilità offerta dalla Pro loco. La legalità può essere ridotta solo a un simbolo oppure è una pratica che si deve perseguire attraverso iniziative concrete d’impatto sociale? Sono in tanti a chiederselo in queste ore.