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Inchiesta Olimpo: Bartolomeo Arena e l’ossessione dei vibonesi per microspie e beni archeologici

Dal sequestro del sito archeologico a Vibo fra via Alcide De Gasperi e via Scrimbia al legame con il defunto boss Pantaleone Mancuso alias “Vetrinetta”

Inchiesta Olimpo: Bartolomeo Arena e l’ossessione dei vibonesi per microspie e beni archeologici

Avevano “l’ossessione” per la ricerca di microspie i clan di Vibo Valentia. E si sarebbero preoccupati di “bonificare” ogni luogo di riunione, anche attraverso contatti con coloro che potevano collocare le cimici per conto delle forze dell’ordine. E’ quanto emerge dalle ultime dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena rese alla Dda di Catanzaro e confluite nell’inchiesta denominata Olimpo. Dichiarazioni che potrebbero trascinare più di qualche insospettabile sotto la luce dei “riflettori” degli investigatori antimafia e che riportano a rileggere anche procedimenti penali finiti in prescrizione ma con personaggi e traffici di tutto rispetto.
Bartolomeo Arena arriva ai vibonesi rispondendo ad una domanda sugli assetti mafiosi nel territorio di Tropea: Non so di accordi spartitori in ordine ai lavori sull’ospedale di Tropea. Su Tropea la famiglia La Rosa – ha dichiarato il collaboratore – fa principalmente riferimento al ramo degli zii dei Mancuso, Luigi e Cosmo Michele Mancuso, mentre i Carone di Tropea sono legati al ramo ’Mbroglia e quindi anche a Diego Mancuso”. [Continua in basso]

Il traffico dei reperti archeologici e gli insospettabili

Il defunto Pantaleone Mancuso

E’ a questo punto che il collaboratore Arena ricorda alcuni legami. “Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”, è colui che ha lanciato i Mancuso nella massoneria. Lui aveva anche interessi nel settore degli scavi archeologici, aveva appoggio presso un dipendente del museo, tale Giuseppe Tavella, coinvolto nella vicenda degli scavi a Scrimbia, che ha avuto anche uno sbocco giudiziario, nella quale avevano avuto parte anche i Pardea e Salvatore Tulosai”. Il riferimento di Bartolomeo Arena è all’inchiesta denominata “Purgatorio 3”, inizialmente istruita dalla Dda di Catanzaro quale “costola” della più ampia inchiesta denominata “Black money”, ma poi passata per competenza funzionale alla Procura di Vibo Valentia essendo cadute le aggravanti mafiose, pur collocando Pantaleone Mancuso (alias “Vetrinetta”), deceduto nel 2015, al vertice di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici. Il procedimento penale che ne è scaturito si è concluso il 2 marzo 2020 con sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione emessa dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Tiziana Macrì. Il reato associativo si fermava infatti al febbraio del 2011, data dell’avvenuto sequestro del sito archeologico a Vibo Valentia fra via Alcide De Gasperi e via Scrimbia, con conseguente decorso del termine di prescrizione massimo di anni 8 e mesi 9. L’inchiesta scattata in ritardo (blitz del 20 luglio 2015 rispetto a Black money del marzo 2013) ha portato alla prescrizione già in primo grado e prima ancora dell’inizio del dibattimento con l’escussione dei testi dell’accusa e della difesa.
Fra i prescritti anche Giuseppe Tavella, 63 anni, due componenti della famiglia Pardea di Vibo ma non Salvatore Tulosai.

Luciano Macrì

Preciso che, per quanto io ne sappia – ha dichiarato Bartolomeo Arena – che il nome di Tavella non venne fuori dall’indagine, per quanto lui aveva saputo da qualche appartenente alle forze dell’ordine di essere intercettato. Infatti il Tavella me ne parlava ed una volta mi chiese persino se noi formavamo società presso il negozio di Giannini, perché aveva saputo che l’ambiente era monitorato. A seguito di ciò, Luciano Macrì interpellò un suo amico che posizionava microspie per conto delle forze dell’ordine, il quale non gli diede conferma, tranquillizzandoci. Penso che Tavella mi fece queste confidenze per guadagnarsi la mia simpatia, dal momento che in quel periodo avevamo incendiato la macchina di Salvatore Tulosai, amico di Tavella, e quindi poteva temere qualcosa”.
Da precisare che nè Giuseppe Tavella, né Salvatore Tulosai figurano fra gli indagati dell’operazione Olimpo. Salvatore Tulosai è stato invece condannato nel troncone in abbreviato di Rinascita Scott a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa (clan Lo Bianco-Barba), mentre Luciano Macrì è stato condannato a 20 anni di carcere. E’ in corso il processo d’appello.

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