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Autonomia differenziata, Furci: «Così il Sud affonderà definitivamente»

Lo storico e scrittore vibonese interviene sul Ddl Calderoli: «A rischio i servizi sociali, scolastici e sanitari nelle regioni meridionali»

Autonomia differenziata, Furci: «Così il Sud affonderà definitivamente»
Michele Furci

Sulla vexata quaestio dell’autonomia differenziata si registra un articolato intervento dello storico e scrittore meridionalista vibonese Michele Furci con il quale  lo stesso intende operare una disambiguazione del concetto stesso di autonomia differenziata, mettendo in luce quello che, a suo avviso, sarà il reale risultato del provvedimento legislativo in itinere. Dopo aver operato un excursus storico delle ragioni che hanno portato all’attuale arretratezza delle regioni meridionali rispetto a quelle del Nord, alla fine del suo intervento Furci ammonisce in modo quasi premonitorio: «Ma per l’Italia delle presunte regioni forti del triangolo padano non andrà meglio poiché senza il territorio del Sud, che le ha tenute in vita e fatte progredire nei 160 anni di unità grazie all’utilizzo della grande risorsa umana ivi emigrata dai territori abbandonati, colerà a picco e sarà ingoiata in un sol boccone dalle potenti forze del triangolo anglo-franco-tedesco». Di seguito il testo integrale della sua analisi.

«L’Italia politica come entità territoriale competitiva, in grado di reggere i mercati in Europa e nel mondo, dividendosi perché il triangolo padano furbescamente pensa di salvarsi da solo, sappia che giammai potrà esserlo senza il virtuosismo dei popoli del Mezzogiorno.
I cosiddetti Sovranisti o Nazionalisti nord-centrici, con la loro proposta di autonomia differenziata, in realtà sfasceranno nel 2023 quella che fu per molti di loro soltanto un’Italia unita e coesa a portare acqua al mulino padano. Le classi dominanti delle finanze, attraverso i mezzi della comunicazione invasiva e i centri decisionali nelle mani dei grandi gruppi multinazionali, continuano a dominare la politica senza che i presunti governatori del Sud riescano a toccare palla. In fondo si tratta di una condizione che si protrae in grande misura sin dall’unilaterale incorporamento al Piemonte degli Statarelli centrali e del Regno delle due Sicilie, poiché quel tipo di unione fu tanto repentina quanto decisa nei tempi e nei modi da altrui volontà anglo-francese.

E tuttavia quel dominio, condiviso dall’insipiente ascarismo feudo-gattopardesco ammantato da ideale liberal risorgimentale, dopo aver favorito con sagacia lo sviluppo del triangolo industriale nei suoi 160 anni di esistenza, con il regionalismo differenziato ai loro esclusivi interessi ora fa il passo decisivo per abbandonare il resto del sistema Italia al suo destino. E tutto ciò, dopo averlo spolpato delle sue energie migliori e con territori destrutturati e sempre più spopolati dalle fresche e giovanili intraprendenze umane, raminghi in ogni dove a dimostrare in altrui patria il talento della propria stirpe.

Tutte le iniziative, a partire dalla realtà industriale e manifatturiera preesistente al 1860 nei distretti del Mezzogiorno, una dopo l’altra sono state fatte naufragare da abile regia in ogni contesto storico, utilizzando di volta in volta le leve del mercato internazionale e i plateali incidenti agli uomini illustri che, sfidando il potere sovraordinato, portavano avanti progetti di sviluppo produttivo nel Mezzogiorno d’Italia. Con la loro scomparsa, in tutte le occasioni, è stata segnata la fine di ogni programma industriale avviato con successo nelle terre feconde di quel che fu il territorio delle due Sicilie.

Si tratta di una politica abilmente perseguita, con i favori iniziali dell’ascarismo feudo-gattopardesco e di poi, di volta in volta, promovendo miopi proconsoli proni a portare avanti politiche assistenziali finalizzate all’autoconservazione, piuttosto che dar credito a uomini politici dei medesimi schieramenti nazionali propensi a portare avanti battaglie concrete per uno sviluppo autopropulsivo. Un giochetto fin tanto facile, con la tattica del divide et impera, adottato in ogni forza politica e sindacale sin dagli albori del primo ‘900 e poi ancora con la prima e seconda repubblica.

Il dualismo economico e strutturale, procurato al territorio meridionale dalla repentina quanto imposta chiusura della stagione industriale e manifatturiera brillantemente intrapresa sul finire del ‘700, è un fattore non superabile politicamente parlando soltanto del costo dei servizi sociali. Ciò perché, questa condizione dolorosa di arretratezza nell’approccio culturale, nella gestione manageriale di ogni struttura sanitaria o scolastica, mai realmente affrontata nella sua storicità, è il frutto delle decisioni politiche unilaterali che hanno reso nel tempo antieconomico e improduttivo il tessuto economico delle regioni meridionali.

Tutto nacque dalla decisione presa dal Parlamento di Torino, che ha imposto un mercato unico nazionale nel 1961 sui valori della moneta piemontese, senza un pur minimo calcolo differenziato di scambio tra le monete preesistenti all’unità. Si tratta di una vicenda paradossalmente simile all’entrata in funzione dell’Unione Europea nel 2002 quando, per salvaguardare in qualche modo le differenti realtà economiche, sociali, culturali e produttive dei paesi europei aderenti, i legittimi governi nazionali hanno concordato l’introduzione dell’Euro differenziando però il valore di scambio delle monete in vigore in precedenza nelle varie nazioni: la lira italiana ebbe un valore di scambio pari a un euro = £ 1.936,27, mentre il Marco tedesco = a 1,95583 o la Peseta spagnola = a 166,386, ecc. 

Cosicché, partendo da una condizione svantaggiata, i successivi programmi che stavano alla base dei progetti Iri del 1933, poi riproposti con la legge 10 agosto 1950 nº 646, istituendo la Cassa per il Mezzogiorno, poi ancora nel 1953 dall’Eni di Enrico Mattei, ancora rigenerati con i programmi del Pacchetto Colombo per la Calabria negli anni ’70, quindi con la programmazione negoziata degli anni ’90 ed ancora con agenda 2000 di progetti europei, puntualmente uno dopo l’altro sono falliti tutti, anche perché con il Trattato di Maastricht o dell’Unione Europea (TUE) del 7 febbraio 1992  e la globalizzazione, la conseguenziale deindustrializzazione ha reso debole l’intero sistema Italia nei confronti delle grandi economie europee e di quelle emergenti dell’Asia e della Cina in particolare.

A riprova che il Sud, all’appuntamento con la storia dell’unità del Paese non fosse di meno nelle condizioni economiche strutturali, è sufficiente aggregare alcuni dati dell’industrializzazione che nel 1861 contraddistingueva ogni macro area. In quell’anno, infatti, il tasso delle attività produttive aggregato nelle varie Regioni era il seguente: Piemonte 1.03%, Lombardia del 1,17%, Campania all’ 1.19%, dato peraltro omogeneo ad altre Regioni meridionali, che all’epoca primeggiavano con le officine di Pietrarsa in Campania e Mongiana in Calabria. Si tratta degli stabilimenti industriali concepiti come industria minerario – metallurgica e siderurgica in grado di produrre materiale bellico ma anche civile. Prova di ciò, utilizzando le attività astrattive del minerale di ferro nel distretto siderurgico di Mongiana, iniziarono la produzione di locomotive con cui era stata inaugurata la prima linea ferrata italiana Napoli-Portici il 3 ottobre 1839. Per non parlare dei Cantieri Navali del Real Arsenale di Castellammare di Stabia, fondati nel 1783, delle aziende tessili sparse un po’ ovunque nel Mezzogiorno e delle grandi aziende estrattive della Sicilia, all’epoca appannaggio degli Inglesi.

Secondo alcuni dati del censimento del 1871 in rapporto ai risultati del 1951, a riprova dell’inizio del declino produttivo e innovativo del Sud nel 1861,si ha che all’inizio dell’Unità il comparto Agricoltura Caccia e Pesca era del 29% al Sud e del 35% al Nord, l’industria del 13% al Sud e del 13% al Nord, il Commercio e i trasporti il2% al Sud e il 2% al Nord, altri settori il 10% al Sud e il 9%al Nord; nel 1951 invece il comparto Agricoltura Caccia e Pesca era del 21% al Sud e del 15% al Nord; l’industria il 9% al Sud e il 18% al Nord, il Commercio e i trasporti l’1% al Sud e il 6% al Nord, e altri settori il 4% al Sud e il 6%al Nord.

Sicché, se nel 2023 la proposta di consentire due velocità nello sviluppo tra le Regioni la si guardi soltanto sul piano politico, come sempre negli ultimi 160 anni, allora scatterà subito la tifoseria partitica e così i gruppi egemoniche rappresentano gli interessi reali (economici, finanziari, morali e territoriali) del Nord avranno ancora una volta la meglio. Se, al contrario, la questione politica la si affronti per quella che è, storicizzando la situazione che ha determinato i gravi squilibri strutturali e il forte ritardo di sviluppo che registrano le regioni del Mezzogiorno rispetto a quelle del centro Nord, allora finalmente i ciechi imbottiti di retorica patriottica o nostalgici di un’idea risorgimentale mai realmente compiuta, finalmente capiranno che la questione dell’autonomia differenziata non è una questione di mera architettura istituzionale, bensì di natura strutturale in cui è in gioco il ruolo fondamentale che deve esercitare lo Stato Italiano, entità istituzionale e territoriale unitaria ora non soltanto per la redistribuzione delle risorse, bensì in quanto forza unitaria in grado di presentare un progetto industriale moderno ed adeguato alla quarta rivoluzione industriale tecnologica e digitale.

E ciò affinché l’Italia si possa misurare alla pari con Francia, Germania egli altri paesi europei che, in maniera inesorabile, rischiano tutti di essere marginalizzati da qui ai prossimi 20 anni dagli equilibri nuovi che si determineranno alla fine del conflitto in corso tra Occidente e Oriente-Asia.

Per fare ciò, specialmente in un contesto in cui si ridisegnano gli assi strategici dello sviluppo industriale di quarta generazione, l’Italia che deve misurarsi con le attuali e sempre più agguerrite strategie economiche europee, occidentali e globali, frantumando o dividendo il già debole sistema paese Italia, significa soltanto che in breve le Regioni del Sud affonderanno certamente nei servizi sociali, scolastici e sanitari, giacché la struttura economica è stata già da tempo smantellata. Significa altresì che l’Italia delle presunte regioni forti del triangolo padano non andrà però meglio, poiché senza il territorio del Sud, che li ha tenute in vita e fatte progredite nei 160 anni di unità politica grazie all’utilizzo della grande risorsa umana ivi emigrata dai territori abbandonati, colerà a picco e sarà ingoiata in un sol boccone dalle potenti forze del triangolo anglo-franco e tedesco di asburgica memoria!

In ragione di questa elementare verità storica, cui con lungimiranza i padri fondatori la Comunità Europea a partire dal Manifesto di Ventotene del 1943 avevano lavorato per scongiurare un ritorno alle egemonie territoriali del passato, l’Italia politica sappia che come entità territoriale competitiva e in grado di reggere i mercati in Europa e nel mondo, dividendosi come sistema paese perché il triangolo padano pensa di salvarsi da solo, non potrà mai esserla».

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