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Spilinga, la grotta del Favo e l’epoca delle scorrerie negli antichi territori del vibonese

Il ruolo della cavità naturale negli anni a cavallo tra il 1200 e 1300 nella ricostruzione dello storico Agostino Gennaro: «L’area venne infestata dai banditi finchè il sovrano non ordinò una durissima repressione con la distruzione di interi villaggi»

Spilinga, la grotta del Favo e l’epoca delle scorrerie negli antichi territori del vibonese

È un luogo a cui si collegano storie di banditi e di lotte interne. Uno spazio sospeso nel tempo che racconta di un’epoca lontanissima. Nel territorio di Spilinga sorge la grotta del “Favo” una suggestiva cavità dotata di due vasti ingressi collocati a quota differenti. Quello superiore svolgeva il compito di inghiottitoio delle acque di ruscellamento superficiali poi restituite in superficie dall’imbocco inferiore dopo un percorso ipogeo di circa 80 metri. La grotta sorge nei pressi di una fiumara. L’area fu per lungo tempo soggetta al controllo di malavitosi come ricostruito dallo storico locale Agostino Gennaro: «Nelle mappe catastali del comune di Spilinga – ci spiega – troviamo annotato “Scesa della Grotta del Fago e strada comunale Grotta dei Favi”. Si ritiene che la dizione esatta, riportata dalle mappe storiche e dalla tradizione popolare, sia “Grotta del Favo”. Si trova in luogo poco distante da dove sorgevano i villaggi di Rodonadi e Bordonadi distrutti con Aramoni. Di media grandezza, circa 80 metri lineari, conserva ancora oggi i due accessi, quello secondario, in alto, che sbocca in aperta campagna in località Martino e quello principale, con apertura più ampia, che sbocca su un corso d’acqua di carattere torrentizio che anticamente aveva una portata superiore, come si evince dalle profonde scanalature e dall’ampiezza tra le basi delle due vallate.

L’area per diversi secoli divenne palcoscenico del banditismo locale: «Possiamo paragonare il torrente al fossato che proteggeva gli antichi manieri, perché sicuramente veniva utilizzato per ritardare l’accesso a eventuali inseguitori, dando così il tempo ai banditi di raggiungere la seconda uscita e guadagnare l’aperta campagna, dileguandosi nei boschi circostanti. Stiamo parlando di epoche lontanissime sulla fine del Duecento». I malavitosi erano soprattutto soldati di ventura giunti in terra di Calabria e precisamente nella città di Mileto: «Le grotte furono occupate dai banditi che, in pochi anni, dal 1292-1303, avevano infestato Aramoni diffondendosi a macchia d’ olio su tutto l’entroterra del Poro, dalla costa briaticese a quella di Nicotera. Ben presto, coinvolgendo molti indigeni, si insediarono nei paesi ricadenti nei territori vicini alla grotta (tra cui San Donato, Rodonadi, Bordonadi, Bellonio, Carupoli e Macrone) che, come scrive il Corso, con quelli delle vicine contrade formarono tre fazioni che controllavano il territorio da Briatico a Nicotera».

Gli scopi erano chiari: «Questi uomini di armi senza pietà e padroni delle strategie di guerra si chiusero in una botte di ferro». In tale contesto, re Calo II, nel 1303 emanò un editto allo scopo di riportare ordine sui territori «con la distruzione dei Rombolà, la costruzione della Torre di Liso e la disposizione a tutti i baroni di custodire i valichi di monte Poro, i passi pericolosi e le strade sospette gli episodi malavitosi si ridussero. Ma l’agognata normalità per i viaggiatori durò ben poco». Infatti, sottolinea lo storico D’Agostino, «calata l’attenzione dei governanti, i guardiani si accordarono con i malavitosi indirizzando i malcapitati viaggiatori nei luoghi delle imboscate. Per di più i banditi, riarmati e utilizzate per le lotte fratricida tra famiglie tropeane, rioccuparono la Grotta di Favo, quella delle Fate e tutte le antiche postazioni, perpetrando contro le misere e indifese popolazioni le più terribili e sanguinose vendette». La soluzione definitiva avvenne nel 1334 con il nuovo sovrano, re Roberto che «accogliendo l’accorato appello delle popolazioni vessati con un nuovo editto ordinò la messa al bando di tutte le persone sanguinare e la distruzione dei loro paesi col ferro e il fuoco. Con Aramoni furono distrutti i borghi di S. Donato, Bellonio, Caruponi e Macrone». Sulla riscoperta e riqualificazione delle Grotte del Favo nonché del recupero di parte della storia locale si insiste da tempo. L’amministrazione ha infatti confezionato un progetto di rilancio turistico delle bellezze spilingesi. L’idea, che confluisce nel Piano nazionale di ripresa e resilienza mirava all’ottenimento di un finanziamento di due milioni di euro. Il progetto, come a suo tempo sottolineato dal sindaco Enzo Marasco, è quella di mirare al recupero dell’aspetto turistico e storico partendo dal centro del paese, piazza San Michele, per raggiungere le grotte del Favo da dove ebbe origine Spilinga.

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